Vincitori Concorsi



Ecco i nomi delle vincitrici 
del primo e secondo premio 
dell'edizione 2019-2020
del  Concorso letterario del liceo Maffei:




 25 maggio 2020




 BIENNIO


 I Premio         Chiara Perina  IV D  “Al di là del muro
II Premio        Annalisa Spada  V  “Il silenzio che parla



TRIENNIO



                     I Premio          Megan Conti   III AL  “Mi chiamo Nina
                    II Premio         Patrizia Tosoni III AL  “Fumetto sulla montagna






Ecco i loro racconti!



Al di là del muro

 Chiara Perina,  IV D


Il volume della musica che martella nelle mie orecchie è troppo alto. Ma non ho alcuna intenzione di abbassarlo. Lasciatemi almeno questa libertà, in un mondo di imposizioni. Cammino piano piano, con la cartella che mi pesa sulle spalle come a volermi trascinare giù. Un altro giorno di scuola è passato. Monotono, così come ogni altro. La prof che spiega, io che prendo diligentemente appunti. Avrei tanta voglia di ridurlo in pezzetti, quel quaderno. Ma non è quello che la gente si aspetta da una ragazza beneducata come me, purtroppo. Una ragazza responsabile, di buona famiglia, destinata a grandi cose.

A volte mi piacerebbe proprio mandare all'aria tutto, solo per vedere che effetto fa.

Vedere la faccia sbalordita e frastornata di mia madre, e gridare: «Hai visto? Dov'è andata la tua brava bambina, adesso? Dov'è la creaturina innocente che ha i quaderni più ordinati della classe, che aspetta sempre prima di parlare, che è composta, silenziosa, responsabile? Hai visto cosa mi hai fatto?».

Probabilmente non lo farò mai, e ne sono consapevole. Non riuscirò a buttare fuori tutto quello che sento, perché non sono stata abituata in questo modo. Da piccola, quando andavo fuori in giardino, volevo imbrattarmi di terra e correre in giro. Ma c'era sempre la solita frase, pronunciata con le labbra strette: «Una brava bambina non fa così. Cosa penserà la gente, che sei una selvaggia, correndo in questo modo?».

 

Cosa penserà la gente?

Sono cresciuta con una lista di regole, che a quanto pare mi avrebbero trasformato in una persona perfettamente rispettabile.

Devi essere una brava bambina, Vivianne.

Io volevo davvero esserlo, volevo rendere orgogliosi i miei genitori. Anche se significava non giocare con gli altri bambini a scuola, rimanendo in un angolino a leggere. Anche se significava non andare alle feste di compleanno delle mie compagne di classe. Anche se significava essere costretta a mantenere il classico atteggiamento da “ io sono superiore”, e di conseguenza non avere amici.

Ho scoperto troppo tardi di essere un'altra persona, e adesso tutti conoscono una Vivianne burattino, che dice sempre di sì.

Non hanno ancora visto quella che sono davvero. E per fortuna. Perché la vera Vivianne è un concentrato di rabbia crudele e distruttrice. Una rabbia che parte dal centro del petto e si espande per ogni tessuto, cellula, atomo del mio corpo. Una rabbia che grida.

Cosa c'è di tanto sbagliato in me da volermi trasformare in un'altra persona?

Che è successo alla bambina di quattro anni che voleva giocare in giardino?

Perché non dico loro tutto quanto?

Non lo so.

Non lo so proprio.

 

Entro in casa, e il volume è ancora alto. Magari queste chitarre riusciranno a rompere la corazza di rabbia

repressa, magari mi sfogherò e urlerò e mia madre penserà che sia uscita di senno. Magari no.

Forse tutti riterranno che sono solo una ragazzina viziata, che ha avuto quello che chiunque vorrebbe e se ne lamenta pure.

Forse lo pensano già.

Forse hanno ragione.

Ogni mio pensiero parte da un “forse”, prosegue fino a diventare una domanda e non trova risposta.

Sto ancora rimuginando sulla mia possibile sfuriata, quando la musica si spegne.

Batteria scarica.

La mia improvvisa voglia di frantumare il cielo e il mondo si calma.

Vivianne torna ad essere fatta di quaderni ordinati, di sorrisi e di rabbia silenziosa.

Mi dispiace, sarà per un'altra volta.

«Com'è andata a scuola?».

Eccola qui. Una mamma da pubblicità, che a qualsiasi osservatore casuale sembra rasentare i limiti della perfezione. Quello che gli spettatori non sanno, è che la pelle liscia e delicata è il risultato di ore e ore ore davanti allo specchio, che la fede sull’anulare sinistro ha perso ormai il suo valore, che è sempre tanto triste ma non lo non lo dice mai.

Apparentemente perfetta. Un disastro nascosto sotto strati di trucco. Mi piacerebbe dispiacermi per lei, ma ha scelto la sua vita. E sta includendo anche me nelle sue scelte.

Per cui, no grazie.

«A scuola... direi come al solito.»

«Dici sempre così.»

Perché è sempre così. Ma tu non lo sai. Rimani dietro la tua corazza di sorrisi di superiorità.

 

Siamo tutti dietro un muro. Ognuno con la sua corazza di pregiudizi, silenzi, dubbi, preoccupazioni, bugie. Fingiamo che vada tutto bene, anche quando stando sta andando tutto a catafascio.

E il muro diventa sempre più alto, i mattoni sempre più resistenti, fino a quando nessuno lo potrà più buttare giù.

Forse nessuno conoscerà la vera Vivianne. Rimarrò dietro il mio muro per tutta la vita, così al mio funerale potranno pronunciare i soliti discorsi che si dicono quando muore qualcuno di rispettabile.

 

Mia madre mi guarda, si aspetta una risposta.

«Bah, lezioni normali. Ha interrogato in inglese. Martedì prossimo faremo una verifica.»

«Ah, okay.»

Beh, le basta questa questo. Me la cavo facilmente. Me la cavo rispondendo a monosillabi.

Me la cavo prendendo appunti e ripetendo precisamente quello che il professore spiega.

Me la cavo ascoltando musica.

Me la cavo, senza mai rimanere soddisfatta.

Sono a qualche metro dalla linea che divide il “me la cavo” dal “do il massimo”.

Perché dare il massimo sarebbe l'equivalente di parlare sempre a voce alta, qualche volta urlare.

Ho disimparato ad urlare un bel po’ di tempo fa.

 

E quindi, la conclusione di questo discorso campato in aria, è che c'è un'altra ragazza, un'altra Vivianne, che urla per venire fuori. Vi prego, cercate sotto la superficie, rompete il muro.

Sono qui, e aspetto di uscire.


***

Il silenzio che parla
 
Annalisa Spada, V D





***

Mi chiamo Nina
 
Megan Conti, III AL


***


Fumetto sulla montagna
 
Patrizia Tosoni, III AL




***





...


Ecco i testi vincitori 
del primo e secondo premio 
dell'edizione 2018-2019
del  Concorso letterario del liceo Maffei




 31 maggio 2019




 BIENNIO


I Premio              Mariachiara Bertoldo  V H  “Sono Pazzi Questi Romani
II Premio              Stefania Martone  IVH  “La parola a Santippe



TRIENNIO


I Premio          Federica Adami   III I  “Una siepe di buio e di stelle
II Premio         Michele Castagnetti I A  “Possiate accettare le mie sentite scuse



Buona lettura!




Sono Pazzi Questi Romani

Un personaggio della Storia greca o romana si racconta:
"Adesso vi dico io come sono andate veramente le cose"

di Mariachiara Bertoldo, V H 


“Aaaahh! Aaaahh!  
We come from the land
Of the ice and snow…”
1
Mi girai a destra e vidi il pupazzo di Cesare che mi guardava con aria severa.
"Lo so, lo so, è ora di alzarsi."
“…From the midnight sun
Where the hot spr…”
1
Spensi la sveglia e mi alzai, pronta, più o meno, ad affrontare un altro giorno di scuola.
Dopo aver fatto colazione ed essermi vestita, uscii. Mentre i piedi facevano scricchiolare l’erba ghiacciata, sentii uno strano suono. Alzai la testa e vidi dei corvi volare disordinatamente mentre uno gracchiava.
“I Romani ci avrebbero tratto un auspicio” pensai “Chissà cosa vorrebbe dire…”
Corvi che volano verso ovest: brutte notizie in arrivo
Quando entrai a scuola sentii una strana sensazione, ero eccitata e inquieta al tempo stesso.
Andai in aula e, stranamente, la prof non era ancora arrivata. Dopo aver fatto due parole con una mia amica di un’altra classe, ci salutammo ed iniziai a parlare con i miei compagni:
“Sapete perché la Albi non è ancora entrata?”
“No, ma Sofia dice che oggi non ha visto nemmeno un prof.”
Sofia arrivava a scuola sempre molto presto, quindi questa cosa era sospetta.
Poco dopo la porta si aprì ed entrò un uomo calvo vestito con una toga bianca e porpora.
“Buongiorno ragazzi… Oh! Ma che strane tuniche indossate! Voglio dire, sono bellissime! Sapete, quando mi hanno invitato a venire, non immaginavo niente di tutto questo. Il solito discorso ai pueri della scuola, pensavo. Mi avete stupito… Per tutti gli dei! Cos'è quello strano papiro su cui stai disegnando, signorina? Oh, adoro tutte le vostre innovazioni! Avreste portato una ventata di aria fresca nella vecchia Repubblica di Roma!”
“Scusi, ma lei chi sarebbe?”
“Ma come, non mi riconosce? Sono Publio Cornelio Scipione o, se preferite, Scipione l’Africano.”
A quel punto non potei fare a meno di intervenire:
“Ma è Scipione Scipione? Quello vero, intendo, Scipione l’Africano?”
“Cosa ho appena detto, signorina? Certo che sono io, l’unico, il vero Scipione l’Africano!”
Non ci potevo credere! Un vero antico romano, vivo e vegeto, anche bello arzillo a quanto pareva, era nella mia classe e ci stava parlando come se fossimo stati i suoi nipotini! Era il mio sogno!
L’ora passò più velocemente di quanto fosse possibile e ben presto suonò la campanella.
“A quanto pare me ne devo andare. È stato un piacere ragazzi.”
Scipione stava uscendo quando, probabilmente, vide una faccia familiare:
“Ave, Marco!”
“Ave.”
Chiunque avesse risposto con quel tono così seccato a Scipione, di sicuro lo conosceva, e stava entrando nella nostra classe. Quindi, avremmo passato un’altra ora con un illustre cittadino romano. Non stavo nella pelle!
“Quell'insopportabile di Pub... Discipuli miei, cos’è successo alle vostre toghe?!? Per non parlare di quelle pettinature barbare e dei colori sgargianti delle vesti! Abbigliatevi da rispettabili cittadini romani, per Giove!
Già l'ambiente mi era parso alquanto disonorevole per accogliere personaggi del nostro rango, parliamone, nessun affresco e nemmeno una misera statua, un busto, neanche l'immagine di una divinità! Ma in che ambiente blasfemo ci troviamo?”
La classe rimase ammutolita, solo Lara ebbe il coraggio di parlare. Dopotutto, lei aveva sempre qualcosa da dire.
“Scusi, potrebbe presentarsi? Penso che tutti qui sappiano che è un antico Romano, ma…”
Dopo lo stupore iniziale, il nostro nuovo maestro si era ripreso.
“Zitta, ragazzina, parli troppo. Per Diana, cosa vedo? Così tante puellae e tutte con questi vestiti provenienti dall’Ade!” penso stesse parlando dei pantaloni “Ma non avete un minimo di pudor? Comunque, io sono Catone, detto il Censore. Infatti, non riesco a concepire la situazione in cui versa questa assemblea. Presto, presto, tutti i viri davanti; devo proprio fare un bel discorso.”
Relegate nelle ultime file nella classe, ma stiamo scherzando? Catone ignorò noi ragazze fino alla fine dell’ora, se non per citarci come cattivi esempi, mentre faceva una lezione ai ragazzi sul romano ideale e sulla ‘donna adatta a essere la sua compagna’.
Per fortuna l’ora dopo ci trovammo in tutt’altra situazione.
Una faccia già vista molte volte, conosciuta, entrò nella nostra classe guardata con disprezzo da Catone, che non gli rivolse nemmeno la parola.
“Ego! Mei, mihi, me, me. Io, Cesare Ottaviano Augusto, Io sono il centro di tutto ciò che vedete! L'Ara Pacis? Ci sono! Ma non solo una volta, anche dove non mi avete riconosciuto! Ho disseminato l’Urbe di mie immagini, ho mandato le mie statue in tutto l'Impero, volevo che i miei sudditi mi vedessero sempre. Dovevo essere costantemente presente nelle loro vite.  Ho trovato una Roma di mattoni e l’ho trasformata in una Roma di marmo. Credete che l’abbia fatto per rendere la città più bella, per far vivere meglio i cittadini? Ma no, no. La politica è tutto. Propaganda, propaganda, propaganda.”
Finalmente qualcuno che si presentava subito! In fondo in poco tempo ci saremmo arrivati lo stesso: come aveva detto lui in persona, doveva essere costantemente per presente nelle nostre vite di cittadini. Era Augusto, ovviamente!
“Ragazzi, vi sarete abbastanza annoiati con quegli obsoleti repubblicani. Certo, bei valori, ma loro non conoscono quella che fu la vera aurea aetas, l’Impero! O meglio, il mio principato, la pax augustea. Voi, invece, dovete sapere tutto!”
E così Augusto si lanciò in una dettagliatissima ricostruzione della sua vita, peggio delle Res Gestae, tanto che l’ora, e anche la ricreazione, si conclusero prima che potesse arrivare a ricordarsi dell’esistenza di Lepido.
Resosi conto del suo ritardo, Augusto se ne andò, ma solo perché era impaziente di ricominciare il racconto in un’altra classe.
Anche io ero impaziente. Impaziente di scoprire chi si sarebbe affacciato dalla nostra porta dopo Augusto.
Si sentiva una voce avvicinarsi: “Scrivi, scrivi! E Cesare entrò impavido in una nuova aula, un nuovo campo di battaglia, pronto ad affrontare qualunque pericolo si celasse dietro la porta…”
Cesare? Era veramente quel Cesare?
Ed entrò, in tutta la sua gloria. Beh, certo, era un po’ diverso da quello di Asterix e Obelix seduto sul mio comodino, anche un po’ più brutto, a dire la verità, ma era proprio lui.
“Bene ragazzi, eccomi qui. L’ospite che tutti aspettavate, Gaio Giulio Cesare. Chi potevate sperare di meglio in questa giornata? Scrivi: Cesare conquistò i ragazzi con un umile discorso… Silenzio! Silenzio, ascoltate… Questo rumore... lo riconosco! Un'orda di Galli si sta avvicinando!”
Luca stava per dire che in realtà quello che avevamo appena sentito era il rumore di un autobus di passaggio, a cui tutti siamo ormai abituati, ma per fortuna qualcuno l'ha fermato prima.
“Mei milites, prendete le armi. Chi ha un cavallo, monti in sella. Chi non ce l'ha, mi segua, pronto a morire!”
Così dicendo Cesare uscì dall'aula e si diresse in cortile. Noi uscimmo divertiti sotto lo sguardo perplesso dei nostri compagni delle altre classi e degli altri illustri romani. Ad un certo punto Scipione si affiancò a Cesare:
“L'hai sentito anche tu vero? Penso che siano elefanti. Ma non è possibile, no, Annibale è morto!”
“Ti ricordo che anche noi eravamo morti fino a poco fa. Comunque, il rumore che ho sentito non era di elefanti, bensì di Galli. Vieni anche tu con noi a combattere?”
“Pro patria?”
“Pro patria.”
Una volta in cortile, chi aveva la bicicletta ‘montò in sella’, gli altri si attrezzarono come meglio poterono, impugnando dizionari di greco (quando si dice ‘il peso della cultura’) o altre armi improvvisate. Il nostro esercito era cresciuto, infatti molti altri studenti della scuola si erano uniti a noi per combattere. Afferrai un bastone e, con la borsa di ginnastica come scudo, cercai di restare più vicina possibile a Cesare. Arrivammo in mezzo alla strada e in fondo alla curva spuntò... un altro esercito? Tutti erano sconcertati, credevamo infatti che al massimo avremmo combattuto contro un autobus. Ma non ci perdemmo d'animo e iniziammo a correre verso i nemici.
“Signa inferre!” Al grido di Cesare qualcuno corse davanti a tutti con delle insegne improvvisate, mentre i presunti Galli si avvicinavano urlando: “Aaaahh! Aaaahh!.

Dopo un aspro combattimento qualcosa mi colpì. Caddi a terra. Chiusi gli occhi: “Almeno morirò combattendo fianco a fianco con Cesare.” Riaprii un attimo gli occhi e intravidi quel tanto amato profilo, poi li chiusi, forse per sempre.





La parola a Santippe

Un personaggio della Storia greca o romana si racconta:
"Adesso vi dico io come sono andate veramente le cose"


di Stefania Martone, IV H 


            
Ricordo ancora la prima volta che vidi il mio futuro sposo. ‘Quant’è vecchio’ fu il mio primo pensiero, mentre con gli occhi cercavo di comprendere l’espressione di mia madre per capire cosa, questo matrimonio, in base alla sua esperienza, mi avrebbe riservato.
Ma quel giorno non trovai risposte in quello sguardo dove mi ero sinora sempre rifugiata e in quel vuoto capii che stavo attraversando una frontiera che mi avrebbe portato in un mondo sinora a me sconosciuto … quello delle donne maritate.  Anche se può sembrarvi strano, per noi ragazze dell’antica Grecia, i misteri della vita coniugale si svelavano solo dopo il matrimonio, con l’esperienza quotidiana e non deve sorprendervi che io abbia conosciuto Socrate per la prima volta proprio in quell’occasione. Le voci che circolavano sul suo aspetto, ‘simile a un satiro’ avevo sentito dire, mi avevano preparato al peggio per cui non fui tanto colpita dalla sua bassa statura, dai suoi lineamenti grossolani o dal modo sciatto in cui portava il suo chitone, quanto piuttosto dal suo aspetto vecchieggiante.

In un attimo vidi la mia giovinezza sfiorire accanto a lui e mi sentii di colpo appassita.

Già immagino che la maggior parte di voi, sentendo il mio nome, pensi istintivamente a quello che di me è stato raccontato, facendomi passare come una donna eternamente bisbetica e litigiosa. Ho sentito pure dire da qualcuno che se mio marito passava tanto tempo fuori di casa era per non subire, tra le mura domestiche, la mia presenza …
E allora io vorrei dirvi: ‘vi immaginate come è stata la mia vita fianco a fianco con un uomo tanto singolare?’
A quei tempi, per noi donne, non c’era tanta possibilità di scegliere. Spesso era la natura a determinare il nostro destino. Chi nasceva dotata di grande bellezza e arguzia, poteva ambire a conoscenze distinte, che l’avrebbero inserita, per così dire, ‘in società’. La mia unica bellezza e particolarità era la mia chioma fiammeggiante, che tanto piaceva a Socrate. Per il resto non mi sono mai considerata né particolarmente intelligente né così affascinante da potermi fare strada da sola nel mondo. Però una mia dote, se me lo consentite, ve la voglio dire. Possiamo chiamarla praticità o capacità di trovare rapidamente soluzioni ai piccoli problemi quotidiani. Proprio il contrario del mio caro marito che aveva la testa perennemente fra le nuvole, perso a interrogarsi sui problemi dell’universo… immaginatelo alle prese con la gestione di una famiglia.

All’inizio lo ascoltavo a bocca aperta quando provava a farmi capire come le cose non sono quello che sembrano e mi bevevo le sue parole lasciandomi cullare dal loro suono. Ma poi mi accorgevo che anche nelle cose più semplici venivo colta da dubbi, al punto di non riuscire più a stare dietro alle faccende quotidiane. Per esempio quando dovevo imbastire una cena mi incantavo a pensare all’essenza del cibo che stavo cucinando, finché Menesseno mi tirava l’orlo del peplo e mi guardava con gli occhioni affamati.
Con gli anni però la consuetudine ha portato via la magia anche perché, il nostro filosofo, quando si sedeva a tavola reclamava un pasto sostanzioso, altro che parole … Eh no, per quelle bastava lui.

Non parliamo poi di quando si metteva in mente di giocare coi nostri figli. Ricordo un giorno di maggio in cui erano tutti e quattro fuori, davanti alla porta, e mi sono fermata ad osservarli compiaciuta di vedere Socrate finalmente comportarsi da padre … questo finché non ho sentito i suoi discorsi.
Era lì, pensieroso, con Lamprocle e Sofronisco che lo guardavano perplessi mentre indicava un sasso che Menesseno teneva sul palmo della mano: - Dunque tu lo chiami sasso, ma sei sicuro che sia il suo vero nome? E se in realtà noi con “sasso” indicassimo il semplice materiale di cui è composto ma avesse una sostanza impalpabile con un altro nome?  O se fosse il contrario? E chi ti dice che questo sasso è così come lo vediamo?  E se fosse una distorsione operata da noi su un oggetto che ha tutt’ altra forma? – Il povero Menesseno scappò in cucina piangendo e Socrate scuotendo il capo, si allontanò, incompreso, in cerca di discepoli dall’immaginazione più fervida.
Peggio ancora era quando i ragazzi, che in qualche loro modo assorbivano le domande paterne, le sottoponevano a me. In quei casi davvero mi irritavo incredibilmente, anche perché, a differenza del loro padre, i miei figli mi stimavano intelligente e si aspettavano che io sapessi rispondere.

Immaginatevi dunque come, giorno dopo giorno, crescesse la mia esasperazione verso quest’uomo, che ormai passava tutto il suo tempo a gironzolare per le strade di Atene, circondato da giovanotti sfaccendati che lo veneravano come maestro. Almeno si fosse fatto pagare per tutta la sapienza che dispensava. Neanche una dracma, perché ‘lui era un maestro e non un mercante!’.
Spero che adesso capirete che nessuna donna sarebbe riuscita a starsene silenziosa e buona tutto il tempo. Quando riuscivo a intercettarlo mi facevo ben sentire, come no. Anzi credo che le mie sfuriate, riecheggiando per le bianche strade di Atene, abbiano contribuito alla mia fama.
Ma credete che i miei rimbrotti lo scuotessero? Neanche questa soddisfazione mi dava.  Potevo rovesciargli addosso le ingiurie più ignominiose ma niente faceva breccia nella sua imperturbabilità. Quando era insieme a qualcuno riusciva poi a dare il meglio di sé, come quella volta che lo vidi comparire insieme a un nuovo amico in ritardo di tre ore rispetto al previsto e lo presi di mira con una raffica di imprecazioni. Lui rimase a guardarmi sereno, con un lampo irrisorio negli occhi.
Allora gli rovesciai addosso un vaso di acqua sporca e lo sentii dire, rivolto al giovane: -Non dicevo, forse, che il tuono di Santippe sarebbe finito in pioggia?-
Forse ancor più di lui mi irritavano i suoi discepoli che lo seguivano ovunque e, per attirare la sua attenzione facevano a gara a importunare i poveri passanti, all’agorà, al porto, per le strade, ponendo domande simili a quelle sul sasso per dimostrare che noi comuni mortali della vita non abbiamo capito niente. Salvo poi riunirsi a casa nostra, a mangiare e bere più di un esercito, perché in fondo i filosofi non sono immuni dalle umane necessità.

So che chi di voi mi ha sempre immaginato come una megera farà fatica a credermi ma quando l’ho visto per l’ultima volta dietro le sbarre della prigione determinato a lasciare questa vita pur di non tradire le sue convinzioni, mi sono sentita invadere da un sentimento di profonda ammirazione per la sua forza. Anche in quell’occasione però il mio pazzo marito è riuscito a sorprendermi quando stringendogli le mani gli chiesi ‘Ma tu dunque vuoi morire da innocente?’ e lui mi rispose ‘Perché, avresti preferito che morissi colpevole?’.

E questo è di lui il ricordo più dolce che porto nel cuore.






Una siepe di buio e stelle

La Scienza


di Federica Adami, III I 


Siamo sdraiati sul prato nella notte limpida e tacendo guardiamo lontano.
A sfiorarci la pelle giovani steli d’erba e qualche margherita, davanti a noi l’universo.
Con le braccia larghe e le pupille dilatate cerchiamo invano di accogliere l’infinito, di possederlo e addomesticarlo e per un momento ci illudiamo di riuscirci. Solo dopo, con un senso di mancamento ci accorgiamo che esso ci sfugge, trabocca su di noi e si espande schiacciandoci.
Nel petto, tra le costole e i polmoni, abbiamo un peso opprimente e magnifico.
Stiamo qui, fermi, in silenzio, vittime volontarie di un’altalena di vertigini, respirando il cielo.

Ci sembra così vasto, così incommensurabilmente esteso, eppure non lo è. Siamo nel centro esatto dell’universo osservabile, di una sfera il cui limite dista da noi 47 miliardi di anni luce in cui si trova tutto ciò che ci è concesso vedere. Contiene settanta triliardi di stelle organizzate in due bilioni di galassie e per quanto a noi risulti difficile persino immaginare numeri tanto grandi il solo fatto di poterle contare prova che il nostro universo è finito, è misurabile. In fondo, rispetto a ciò che ne è al di fuori, non è che un granello di polvere.
Non c’è, né ci sarà mai tecnologia che possa allontanare questo limite perché esso non esiste a causa della nostra incapacità di vedere ma di quella della luce di raggiungerci. Ci sono luoghi che semplicemente sono troppo lontani perché la loro luce faccia in tempo ad arrivarci. Si trovano a una distanza superiore dell’età stessa del cosmo e di tempo per farsi vedere non ne avranno mai abbastanza. Più ci si avvicina al limite più la fisica entra in confusione e come in una geometria di Escher ogni cosa ci sfugge, lo spazio si comprime, il tempo si azzera. Oltre, tutto ci è sconosciuto e si dissolve in teorie inconcludenti, l’oltre non ci compete.
Quando capiamo quanto quei luoghi sfuggano alla nostra portata pensiamo a quel peso che ci comprime il petto e notiamo quanto somigli a nostalgia. Nostalgia di luoghi in cui non siamo mai stati e proprio per questo intimamente nostri.

D’un tratto il prato sotto di noi non esiste più, sediamo sul bordo dell’universo, le gambe a penzoloni nel nulla. Placidamente fissiamo l’indistinto che ci sta davanti, le mani in grembo, i capelli sciolti. Siamo davanti a una nuova siepe fatta di buio e stelle. Al di là si estende un’immensità infinita di cui siamo veramente padroni. Scorrono fiumi di polvere e luce, galleggiano nel vuoto gocce di plasma. Mondi nuovi e meravigliosi si aprono davanti ai nostri occhi e bambini celesti giocano con la materia oscura correndo tra le galassie.
A sopraffarci non è più l’universo ma il potere che la nostra mente ha su di esso. Siamo piccoli padroni del cosmo, indiscussi signori di tutto ciò che non vediamo.

E mentre sotto i nostri occhi i nostri sogni prendono forma a quarantasette miliardi di anni luce da noi la Terra ruota indisturbata intorno al suo piccolo sole.





Possiate accettare le mie sentite scuse

La Scienza

di Michele Castagnetti, I A 



Pitagora fu tra i primi ad avere la memorabile intuizione che la Terra fosse sferica. Troppo scarne sono le informazioni a riguardo, e non possiamo sapere al giorno d’oggi con quali passaggi arrivò a tale conclusione. Aristotele azzardò una misura, non molto precisa a dire il vero, decretando che la Terra dovesse essere una sfera “non molto grande” in base ai suoi studi sulle costellazioni e sulle eclissi. Eratostene addirittura constatò che la circonferenza della Terra fosse di 250.000 stadi, con un errore del 2% circa rispetto alla più recente misurazione effettuata; ci riuscì tramite complessi calcoli che si basavano sull’angolo che l’ombra formava col terreno a mezzogiorno del solstizio d’estate nella città di Alessandria. 
Scienziati, matematici e filosofi, quelli citati, che riuscirono nella mirabile impresa di stabilire la forma e le dimensioni del nostro pianeta con i pochissimi mezzi che avevano a disposizione. Una storia fatta di ricerche, intuizioni e calcoli che merita di essere raccontata a chi ancora non la conosce, che tuttavia presenta un unico fondamentale aspetto che stona: si erano sbagliati, la Terra è piatta.

Così iniziava il mio racconto, e sarebbe proseguito su quest’onda se non fosse successo qualcosa di inaspettato.
Mi capita spesso di sentirmi osservato da importanti personaggi del passato in diverse situazioni, come se si sedessero di fianco a me per vedere ciò che faccio; c’è Einstein mentre provo a risolvere qualche equazione, ci sono Rosalind Franklin, Watson e Crick quando fornisco una traballante motivazione del così basso numero di mutazioni del DNA, c’è Euclide quando cerco di risolvere problemi con triangoli rettangoli e ci sono altri in molte altre occasioni. Questi di solito si limitano ad annuire ai miei successi e - in special modo - a storcere il naso davanti ai miei strafalcioni. Ma questa volta andò diversamente. A leggere ciò che stavo scrivendo erano in molti, e per la precisione in cinque, Aristotele, Eratostene, Cristoforo Colombo, Copernico e Galilei. Erano tutti lì, ad alitare sopra le mie spalle tirandosi discrete gomitate l’uno all’altro per fare in modo che i loro occhi raggiungessero le parole che avevo scritto prima che le mie braccia le coprissero nuovamente per buttare giù, non appena arrivata l’ispirazione, una nuova frase. Videro ciò che avevo scritto. “La Terra è piatta”. Rilessero quella frase più e più volte. Le loro espressioni riflettevano un senso di vuoto. Poi reagirono. 
<Beh certo questa è una sorpresa>, furono le parole di Aristotele, che si lasciò andare ad un’affermazione tanto ovvia quanto necessaria sul momento, per spezzare quel silenzio carico di dubbi. Molto più brusca fu la reazione di Eratostene, il cui sprezzante commento fu  <Non ci credo. Questo ragazzo sbaglia>.  <Ricordati che questo scolaro sta scrivendo nel 2019, 377 anni dopo la morte del giovanotto che mi sta di fianco>,  proruppe Copernico indicando Galilei,  <immagino che in questo lungo periodo l’umanità abbia fatto scoperte che noi non potremmo nemmeno concepire>.  <Oppure sono stati creati altri culti che ti obbligano a rimangiare ciò che hai detto, se ciò dimostra che nel loro testo sacro c’è un errore! Maledetto Tommaso Caccini!>. Era evidente che Galilei non avesse ancora digerito l’abiura che aveva subito. Aristotele allora intervenne nuovamente, prendendo le parti di Copernico:  <Abbiamo tutti dedicato parte del nostro tempo sulla Terra a cercare di capire la forma del mondo e il modo in cui interagiva con gli altri pianeti, quindi è ovvio che ci risulti incomprensibile una tale sconvolgente rivelazione; ma sappiamo tutti come una manciata di secoli possa stravolgere idee che prima erano radicate nella cultura dei popoli. Forse anche noi ci sbagliavamo>. Di tutt’altro pensiero era Galilei: <Facile per te rinunciare all’idea di una Terra rotonda. Hai ipotizzato che dovesse essere così, hai detto che era un sfera “non molto grande” e sei passato oltre>.  <Per i mezzi che avevo, ho fatto un lavoro niente male>.  <Avevi gli stessi mezzi di Eratostene, che a quanto pare ha fatto molto meglio di te>.  <Considera che io ero impegnato in special modo nella filosofia, che ha preso molto del mio tempo e in cui sono stato decisamente prolifico>. <A fare sillogismi>.  <Anche, ma è riduttivo ricordarmi per quello. E comunque i sillogismi e la logica hanno avuto un grande impatto nella filosofia successiva>.  <Capirai>.  <Capirai?>.  <Capirai>.  <Vabbè>.  Fortunatamente, Aristotele la prese con filosofia. 
<Comunque, capirete bene che io non potrò mai accettare un’idea della Terra che non sia quella a cui sono abituato>.  A parlare questa volta era Colombo. <Ho navigato dalla Spagna fino alle Indie, attraversando l’infinito oceano>.  Gli altri si guardarono.  <Non sei mai arrivato in India, Cristoforo>  tagliò corto Eratostene. Ne seguì un breve dialogo in cui Colombo, scioccato, scoprì l’America.  Poi prese parola Copernico: <Ad ogni modo, Magellano e poi altri effettivamente fecero il giro del mondo; tutto ciò è in contrasto con la teoria proposta dal ragazzo>.  Parlò Galilei:  <Vero è  -e badate che non voglio dare ragione a ciò che dice il giovane- che a noi sono state fatte passare per vere delle enormi falsità, e a dirla tutta non abbiamo prove che sia stata realmente compiuta la circumnavigazione del mondo>.  La discussione proseguiva.
E io che volevo solo creare una storia con un elemento fantastico! Mai la mia immaginazione fu tanto fervida e realistica, al punto che più di una volta mi voltai a controllare che dietro di me non ci fosse nessuno a discutere. E per quanto non notassi mai nessuno alle mie spalle, mi risultava impossibile proseguire nella scrittura del racconto. Il pensiero che basare la mia storia su una menzogna tanto grande come la negazione della sfericità della Terra potesse avere ripercussioni sui sentimenti di grandi scienziati del passato mi bloccava completamente. E nonostante la storia che avevo in mente fosse stupefacente per vividezza di dettagli, brillantezza di idee e introspezione psicologica dei personaggi, mi decisi a cancellare le poche righe che avevo buttato giù. 
Ciò non passò inosservato agli occhi di Colombo, che prontamente avvertì gli altri, ancora presi nelle loro supposizioni.  <E ora cosa sta succedendo?>, si domandò Eratostene, <Non avrà mica cambiato corrente di pensiero nel giro di cinque minuti?>. <Che si sia reso conto delle baggianate che aveva scritto?>.  <Scommetto che aveva deciso di inventare una nuova teoria solo per conquistare un minimo di celebrità>. Questa ipotesi fu subito accettata dagli altri, che vedevano in essa la soluzione, un modo per non dover più pensare al terribile dubbio che li aveva afflitti nei minuti precedenti. <I giovani non sono più quelli di una volta>.  <Gli farebbe bene un po’ di duro lavoro>.  <E di studio>.  <E di studio! Esatto!>.  <Permettersi di confutare le idee dei maestri del passato senza un minimo di cultura>.  <Vergognoso>. <Andiamocene, abbiamo altro a cui pensare noi>. E tutti insieme se ne andarono.

Capirete che essere insultato da alcuni dei più importanti scienziati e filosofi di sempre non sia qualcosa di semplice da accettare, soprattutto se è tutto nato da una grandissima incomprensione. Poco importa che sia tutto avvenuto nel misterioso mondo della mente di un ragazzo, le parole di Galilei sono di fuoco e trascendono dall’immaterialità dei pensieri per infliggere ferite profonde al cuore, e non sono da meno i commenti degli altri antichi maestri.
Per questo, confido vivamente nella vostra comprensione, e spero mi possiate perdonare se non vi consegno il racconto per il concorso della biblioteca. Non ho trovato la forza di cercare nuove idee, una nuova trama per la mia storia, dopo ciò che era avvenuto.
Porgo le mie sentite scuse, e ringrazio per la comprensione.





...



Ecco i testi vincitori 
del primo e secondo premio 
dell'edizione 2017-2018
del  Concorso letterario del liceo Maffei


 25 maggio 2018


 BIENNIO


I Premio              Laura Mirandola  V E  “Un cuore avvelenato
II Premio              Tommaso Casazza  V A  “Parricidio a Roma



TRIENNIO




                     I Premio          Lia Albi   II D  “Gli ortaggi non fanno parte della Matematica

                    II Premio         Jacopo Sala I I  “Lettera dal fronte della Prima Guerra Mondiale



Buona lettura!




Un cuore avvelenato

Giallo nell'antica Roma
di Laura Mirandola, V E 

Il mantello rosso del comandante veniva sferzato dall’aria che entrava dalla finestra, mentre lui si dirigeva rapidamente verso la stanza del Padrone. Tutto ciò che riuscivo ad udire erano mormorii bassi, fruscii e sospiri a cui non ero in grado di attribuire una causa, ma sapevo che qualcosa non andava: il comandante non si era nemmeno tolto l’elmo.
In seguito, fu solo quando Domitilla, la mia Signora, mi chiamò attraverso la cucina, che tutti i miei dubbi vennero assolti: una figura distesa a terra, immobile, gli occhi aperti e lo sguardo vitreo, la pelle pallida e l’anello del Padrone che scintillava sull’anulare. Ricordo che era rosso, un rosso spento, e la forma strana della pietra, un po’ ricurva e un po’ appuntita. Fu l’unica cosa che davvero mi sconvolse nello scenario che avevo difronte: non il corpo esanime dell’uomo con cui vivevo da anni, non il viso inespressivo della moglie mentre il marito veniva portato via, e di certo non il comandante che dichiarava l’avvenimento un suicidio. Fu il pensiero di quell’anello che attimo dopo attimo, mi logorò dall’interno, perché io ero sicuro ci fosse qualcosa di strano, di diverso, ma per quanto cercassi nei meandri della mia mente l’unica risposta in grado di regalarmi un po’ di pace, non riuscivo a venirne a capo. E la verità era che l’uomo orgoglioso che conoscevo così bene, non avrebbe mai preso la decisione di togliersi la vita. Per nessuna ragione.
«Tabellarius, devi consegnare un messaggio a mio nome. Riferisci queste esatte parole, e bada bene a non scordartele: “Gioca bene le tue carte”» fu l’unica cosa che Domitilla mi disse, prima di spedirmi attraverso le strade luminose di Roma, dove la gente procedeva con la sua quotidianità.
Raggiunsi la Mansione al limitare del bosco in una mattinata di cammino, e come mi era stato ordinato cercai Lucio Gaio, ufficiale al quale era destinato il mio messaggio. L’uomo dai capelli scuri e gli occhi chiari, non appena udì le parole di Domitilla, si limitò a sorridere seduto su uno sgabello in legno e percorse con me la strada di ritorno, ancora sorridente in sella al suo cavallo.
Fu proprio durante questo tragitto che lo vidi: un anello uguale a quello che indossava il cadavere del Padrone, stesso colore e stessa forma, non c’erano dubbi. L’unico problema era il luogo in cui lo avevo scorto: oltre carri e cavalli, uomini e merci, scudi e soldati, quella terribile pietra rossa se ne stava appesa alla porta d’entrata della fatiscente dimora della maga Livia.
Questa visione mi sconvolse per giorni, e non feci altro che pensarvi e ripensarvi: era qualcosa di insensato e di orribile, come se la morte del Padrone fosse stata causata da qualcuno e non da qualcosa. Questo sospetto non faceva che crescere in me, ma solo un giorno tra tanti ne ebbi la conferma definitiva: tornavo da un viaggio di tre giorni per recapitare un messaggio ad un conoscente di un villaggio vicino, quando udii casualmente gli sprazzi di una conversazione tra Domitilla e Lucio Gaio:«Sono contenta che tu sia qui, e che tutto si sia concluso per il meglio.» disse la Padrona, con voce flebile ed esitante.
«Non dovrai più preoccuparti di nulla mia cara. Ci siamo comprati la nostra felicità.»
Parole che mi sconvolsero, che mi lasciarono con l’amaro in bocca e il desiderio di fare luce su tutta la questione. Dovevo scoprire che cosa fosse accaduto al Mio Signore.
La prima cosa che feci, fu recarmi da Lartia, ancella privilegiata di Domitilla. Non era la prima volta che la vedevo: i capelli biondi ben curati e l’andatura regale non si sposavano per niente con la veste da serva e i calzari logori, ma nonostante tutto anche io notai la sua incredibile bellezza, e il fascino di un viso così dolce. Senza perdermi in convenevoli, le chiesi se si fosse mai recata per conto della Padrona dalla maga Livia, nella parte est della città. Il suo sguardo terrorizzato a guardingo mi rispose prima delle sue parole: «Una sola volta vi ho messo piede: dovevo ritirare un pacchetto, ma non ho idea di che cosa contenesse, e vi prego di non farmi più domande.» sussurrò, prima di allontanarsi in tutta fretta.
Senza indugiare oltre, mi diressi di nascosto alla casa della maga, pregando che qualcuno non avesse avuto bisogno di me proprio in quel momento, e quando vi giunsi la pietra rossa era ancora là, a scintillare in tutto il suo splendore.
Internamente la dimora non era meglio che esternamente: gli oggetti erano sparsi ovunque, ad ogni passo che facevo era difficile non andare a sbattere contro qualcosa e quando il gelo s’impossessò delle mie ossa mi pentii all’istante di quell’azione avventata.
Livia mi guardava da dietro la folta chioma, gli occhi fiammeggianti promettevano cattiveria e il sorriso beffardo lasciava un alone di mistero. Anche stavolta, prendendo un respiro coraggioso, andai dritto al punto: «Mia Signora, ha mai venduto una di quelle pietre nell’ultimo periodo?» chiesi, indicandola con la mano.
Il ghigno della donna si allargò e il mio cuore prese a battere furiosamente.
«Potrei averla venduta come no. Che cosa ottengo in cambio delle mie informazioni?»
«Si tratta di vita o di morte, devo saperlo, ma sono un semplice servo, non ho molto da offrirvi.»
Si spostò per venirmi più vicino e la sua mano sfiorò il mio braccio.
«Solo perché siete un uomo giusto, viandante, e perché le vostre intenzioni sono pure. Ho venduto un anello che non era solo un anello, ma ciò che cercate è sotto il vostro naso, non date nulla per scontato.»
Di ritorno, deviai per recarmi al tribunale: ormai dovevo rivelare ciò che avevo scoperto e fare giustizia, anche se poteva compromettere il mio lavoro e la mia vita, era la cosa giusta da fare e di certo non mi sarei tirato indietro proprio in quel momento.
Attraversai il foro e il mercato, mentre i mercanti urlavano a gran voce le loro offerte per attirare i passanti, ma proprio davanti ad una bancarella di gioielli, mi bloccai di colpo: una figura nera, il cappuccio alzato, stava impegnando un anello. Fu proprio in quel momento che risolsi totalmente l’enigma che mi ronzava in testa: quella pietra rossa accesa era l’anello del padrone, l’ avrei riconosciuta ovunque, e la figura era il suo assassino. Cercai di farmi largo in mezzo alla folla, urlando a gran voce in direzione dell’incappucciato, facendolo però allarmare e scomparire dalla mia visuale per qualche secondo. Lo individuai nuovamente e affrettai il passo, fino a quando entrambi non ci ritrovammo a correre per le vie di Roma. Fu quando cadde davanti ai miei occhi, inciampando in un gradino, che l’orlo della sua veste si sollevò appena, scoprendo lividi scuri  sulle gambe magre ed esili. Il cappuccio scivolò via, e due occhi azzurri mi trafissero, terrorizzati ma determinati.
«Non dovevate seguirmi.» disse Lartia, la voce appena udibile e le mani tremanti.
«Dovete darmi delle spiegazioni, a cominciare da quell’anello che portate al dito.» risposi, con un tono più duro di quanto volessi.
La vidi fare un respiro profondo e sollevarsi da terra, mentre una smorfia le si apriva in viso, causata probabilmente dai lividi.
«Sapete, questo viso è un dono, ma anche una maledizione. Mi ha concesso di rimanere in vita, ma mi ha portato via così tanto.» Sospirò, gli occhi colmi di lacrime « La mia anima è stata violata irreparabilmente, perché in questo mondo sono un oggetto affascinante che tutti possono maneggiare a proprio piacimento, ma ad un certo punto mi sono stancata di essere solo un oggetto. Questi lividi sono i segni visibili, ma sono quelli non visibili a distruggermi giorno dopo giorno, perciò ho rubato l’anello del Padrone, e l’ho sostituito con uno avvelenato, donatomi dalla maga Livia. Voleva solo aiutarmi, non ne ha colpe. Io sono l’assassina, la traditrice che ha avvelenato l’uomo che doveva servire e, sarò onesta, lo rifarei ancora. Sapevo che Domitilla voleva lasciare il marito e che sarebbe stato semplice, in caso di bisogno, far ricadere le colpe su di lei. Ora la scelta è solo vostra, Mio Signore. Se credete che io debba pagare per le mie azioni, allora proseguite dritto per la vostra strada e io non vi fermerò, ma se capite anche solo in parte il macigno che trasporto, ignorate la faccenda e rendetemi, almeno in parte, libera.»
«Mi state chiedendo di rischiare la mia vita per mantenere il vostro segreto?»
«Si, è proprio ciò che sto facendo.»

I pensieri mi si affollarono in testa, e tutto ciò che riuscii a vedere per qualche istante furono le gambe piene di lividi di Lartia e il viso esanime del Padrone. Era tutto un enorme groviglio senza senso e mi resi conto che le ingiustizie avvenute erano infatti prive di una motivazione logica. Poi, come se un unico raggio di luce avesse illuminato l’oscurità in cui stavo piombando, il cuore mi diede la risposta che cercavo e determinò la mie scelte da quel giorno fino alla fine dei tempi.




Parricidio a Roma



Gli ortaggi non fanno parte della Matematica

Continuazione di un incipit (D.BUZZATI, Sessanta Racconti: “Sciopero dei telefoni”
di Lia Albi, II D 
         
Il giorno che ci fu lo sciopero dei telefoni e dei telefonini, si lamentarono nel servizio irregolarità e stranezze. Fra l’altro, le singole comunicazioni non erano isolate e spesso si intrecciavano, cosicché si udivano i dialoghi degli altri e vi si poteva intervenire …

Finalmente, dopo giorni di temporali, brillava sulla città un sole splendente che si rifletteva sulle bianche pareti delle case rendendo quasi impossibile la vista. Le strade erano inondate del tipico profumo di pioggia che è impossibile descrivere ma che ognuno ha ben presente. Il cielo iniziava già a tingersi di tonalità calde per l’avvicinarsi del tramonto quando una signora dall’età avanzata conversava al telefono con il figlio. Era seduta sulla sedia a dondolo che il marito le aveva regalato pochi anni prima e oscillava dolcemente. Una ciocca argentata di capelli le incoronava il viso in modo delicato, ondeggiando di tanto in tanto per la leggera brezza. Teneva in grembo il romanzo che stava leggendo prima che il figlio interrompesse il suo momento di tranquillità quotidiana: infatti il tardo pomeriggio era l’unica parte della giornata in cui le era possibile prendersi una pausa da tutto il mondo assillante intorno a lei, mentre il marito con gli amici era al solito club lì vicino. Almeno questo era ciò che la donna diceva, ma in realtà, proprio per la temporanea solitudine, ogni giorno la nostalgia lievemente la tormentava. Inesorabilmente le tornavano alla mente molti ricordi che avrebbe preferito dimenticare, primo fra tutti, la lontananza del figlio. Infatti il ragazzo (ormai uomo), molti anni prima, seppure con un po’ di ritardo rispetto agli amici, aveva lasciato il nido materno soprattutto per iniziare a vivere in autonomia e crearsi una famiglia; per la sua mancanza la donna qualche volta veniva presa dalla tristezza. Per questo quando il figlio la chiamava nel suo momento sacro si fingeva infastidita, ma in realtà quando lo rimproverava, l’uomo non poteva sapere che sul volto della madre compariva un dolce sorriso per il suono della voce familiare. Quel martedì pomeriggio egli voleva sapere di che cosa lei potesse avere bisogno, dal momento che sarebbe passato per cena con la figlia e che per strada avrebbe potuto fermarsi al supermercato. Lei ci pensò un attimo e poi iniziò ad elencare: “Allora, potresti prendere sicuramente del pane, poi uova, zucchero, olio, zucchine dato che a tuo padre sembrano piacere molto, farina, patate, mele e…sono certa che ci fosse qualcos’altro… ma ora mi sfugge proprio…”.
Stessa ora, stessa città, diversa conversazione, un ragazzo dalla chioma riccioluta si sentiva come se stesse cercando di evitare una pioggia violenta al riparo di un albero spoglio. Il giorno seguente infatti avrebbe dovuto affrontare una prova di matematica per cui non era assolutamente preparato, un po’ perchè effettivamente quella materia non era mai stata il suo forte, un po’ perché, anche se in essa avesse avuto qualche minima capacità, l’avrebbe sprecata a causa dell’enorme odio nei suoi confronti. Dall’altro capo del telefono, l’amica tentava disperatamente di spiegargli in poche ore il programma di tre mesi, tracciando disegni immaginari in aria per la frustrazione, opere d’arte che l'altro non avrebbe comunque potuto vedere. Il ragazzo in un primo momento aveva veramente tentato di seguire la conversazione, ma un po' per la noia, un po' per la mancata comprensione, aveva finito per lasciare lo sguardo vagare fuori dalla finestra. Le ombre urbane lentamente si allungavano sempre di più. Unica presenza umana nella strada deserta era la solita signora che ogni martedì pomeriggio sedeva sulla sedia posizionata in un punto strategico della grande terrazza che sovrastava l'edificio di fronte; da lassù doveva ammirare un paesaggio meraviglioso, dato che probabilmente era in grado di scorgere le colline dietro la città. Il ragazzo pensava a come dovesse essere bello trovarsi nei suoi panni: niente scuola, niente lavoro, moltissimo tempo libero a disposizione. Scosse lievemente la testa come per tentare di prestare nuovamente attenzione alla ragazza disperata dall'altro capo della linea, ma quando realizzò che era impossibile (oltre che inutile) tentare di recuperare il filo del discorso, ricominciò a fantasticare sulla sua futura vita da pensionato. Nella sua innocenza giovanile non pensava nemmeno che sarebbe stato un peccato fare un salto di qualche decennio avanti nel futuro per poter subito vivere in un tale ozio. Ma improvvisamente si ridestò quando sentì provenire dal telefono: “Insalata!”. “Insalata?”, pensò ad alta voce. Va bene, non ascoltava le parole dell'amica da ormai dieci minuti buoni, ma lo stupiva come fosse possibile che quella, da formule di matematica, fosse riuscita ad imbastire un discorso sugli ortaggi. D'altra parte però non osava nemmeno interromperla perchè in questo modo avrebbe dovuto ammettere che effettivamente non seguiva più il suo complicatissimo discorso già da un po', ed era certo che se le avesse rivelato ciò, non avrebbe più potuto usufruire dell'importantissimo aiuto che l'amica gli concedeva ogniqualvolta fosse in difficoltà. Ma non aveva mai sfruttato la loro amicizia perchè la ragazza si era sempre generosamente offerta di aiutarlo, probabilmente poiché provava anche un po' di pena per lui. Questo comunque non gli dispiaceva, le poche soddisfazioni che aveva ottenuto in ambito scolastico le doveva tutte a lei. Mentre il ragazzo rifletteva su pensieri secondari e al momento fuori luogo per la situazione, l'elenco di ortaggi continuava e arrivato a “melanzane” decise di intervenire: “Ammetto di essermi perso qualche collegamento, ma non capisco proprio cosa centrino l'insalata e le melanzane”. “Che domande sono? Probabilmente le melanzane le griglierò come sempre e l'insalata la utilizzerò come contorno”. A questo punto il ragazzo era parecchio confuso e verrebbe subito da chiedersi come mai i due interlocutori non si fossero resi conto della differenza nella voce con cui erano al telefono; ma la donna con l'avanzare dell'età aveva perso parte di quell'udito che comunque nemmeno in gioventù si era contraddistinto per la finezza, il ragazzo semplicemente non ci aveva fatto caso. Così il discorso continuò: una elencava svariati alimenti, l'altro rispondeva con formule matematiche. Poco dopo, il giovane decise di terminare la telefonata, ancora confuso per il malinteso di cui non era a conoscenza; la signora invece riappoggiò il cellulare in grembo, soddisfatta dell'ordine fatto al figlio.
Altrettanto esterrefatta era la ragazza che fino a poco prima stava impartendo ripetizioni di matematica: dalla sua prospettiva, l'amico aveva bruscamente interrotto la telefonata proprio nel punto più rilevante della sua spiegazione (non poteva sapere che la sua linea era semplicemente caduta, sostituita da quella della vecchia signora, e che da ormai alcuni minuti quella stava conversando con il ragazzo). Ancora stupita ed anche un po' stizzita, uscì di casa per avviarsi verso il pranzo programmato. Lei aveva fatto del suo meglio per aiutarlo e sostenerlo il più possibile laddove fosse carente, ma se il ragazzo non ci metteva un po' d'impegno, non era assolutamente colpa sua. Solo, le dispiaceva che una persona così acuta non riuscisse ad ottenere i risultati che in fondo lei sapeva che si meritasse. Essendo arrivata in anticipo sul luogo dell'incontro decise di utilizzare il mazzo di chiavi che le era stato dato pochi mesi prima ed entrò nella casa. La esplorò per qualche attimo e poi, non trovando nessuno, salì nel grande terrazzo che aveva sempre invidiato alla nonna. La trovò seduta sulla sua solita sedia a dondolo mentre leggeva un libro e si godeva gli ultimi istanti di raggi solari. La salutò, le diede un bacio sulla guancia e le chiese come era andata la sua giornata. La signora le sorrise guardandola: “Tutto bene, cara. Ora scendiamo, tra poco dovrebbe arrivare tuo padre con il cibo che poco fa gli ho chiesto di prendere. Faccio le melanzane, mi ricordo che ti piacciono tanto”.




Lettera dal fronte della I Guerra Mondiale



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Ecco il testo vincitore 
del primo premio dell'edizione 2016-2017
del  Concorso letterario del liceo Maffei
 BIENNIO: "Questa è la vera storia di..."
 24 maggio 2017

Buona lettura!



Il fardello dell'eternità

di Giulia Zusi, IV D

Il pennello imprimeva la tela di colori delicati, sfumati di tanto in tanto per creare le giuste gradazioni. Una mano anziana si muoveva agile sul foglio e con lenti movimenti tracciava i contorni di una coltre di nuvole solitarie, morbide e avvolgenti, che, occupando la parte sinistra della tela, si stagliavano, in tutta la loro confusa perfezione, su un cielo cobalto, dello stesso colore del mare poco più in basso. Le onde si rincorrevano giocose, spensierate, mentre sulle loro creste erano stati disegnati, con cura quasi maniacale, la schiuma e gli spruzzi prodotti dal quell'instancabile moto.
Intanto, la mano rugosa dalle dita lunghe e sottili procedeva il lavoro silenziosamente, come coinvolta in un rituale estremamente importante e i cui movimenti danzanti sembravano guidati da una muta melodia. Di fronte alla tela si ergeva la figura di una donna anziana: i capelli color cenere sciolti sulle spalle e il corpo leggiadro proteso verso il quadro. Un attento osservatore avrebbe potuto notare il costante tremolio che invadeva la mano e, con più attenzione, si sarebbe soffermato sullo sguardo lucido e smarrito della signora. Era immersa in un dolce ricordo...un pensiero luminoso che la faceva sorridere. La spiaggia, la sabbia, il mare, il sole cocente...e un bambino: il figlio Telemaco.
Il piccolo giocava con le onde, nello stesso mare che pochi mesi prima aveva portato al largo la nave di suo padre, Odisseo. Il viso della donna fu attraversato da un'ombra di tristezza: il ricordo del marito non faceva che causarle dolore.
D'improvviso il rumore di un clacson la fece sobbalzare e la signora si risvegliò dal torpore della memoria. Dal balcone del palazzo si potevano vedere le automobili che sfrecciavano sulla strada trafficata, mentre su di lei si riversò, affilata come un coltello, la cruda realtà.
"Penelope, lasciami andare, ti prego...tornerò e potremo stare di nuovo insieme. Non conosco ciò che mi aspetterà là fuori, ma basta avere speranza, basta che tu creda nell'uomo che hai sposato. Ora guardami e non piangere: com'è vero che mi chiamo Odisseo io farò ritorno e ad aspettarmi ci saranno  la mia saggia moglie, mio figlio e la mia bella Itaca. Solo una cosa ti chiedo, cara Penelope: non dimenticarmi. Fa' che il sole, le nuvole, il mare e perfino il sorriso di Telemaco ti facciano ricordare di me!" Poi il coraggioso Odisseo se ne andò silenziosamente, così come era venuto, e Penelope, dal molo, rimase a guardarlo scomparire all'orizzonte, piccolo...come un uomo.
Seguirono gli anni di paziente attesa, le sofferenze inflitte dai Proci e le notti trascorse insonni a disfare la tela che aveva cucito durante il giorno. Intanto il figlio Telemaco cresceva, stava ormai diventando adulto e sul volto di Penelope cominciavano a manifestarsi i segni del tempo e della preoccupazione, senza però scalfire la sua delicata bellezza.
La speranza stava a poco a poco svanendo, mentre il sole, il mare, le nuvole urlavano il nome di Odisseo, un grido di disperazione che si levava da ogni raggio, onda o soffio di vento e che la raggiungeva sempre, ovunque si trovasse. Passarono giorni, mesi, anni. La gente, per le vie di Itaca, si fermava a chiacchierare e sempre nei discorsi emergeva la paura di un possibile assedio dell'isola da parte dei Proci e la preoccupazione per una regina un tempo tanto saggia, ma ora così tormentata e fragile.
Poi venne...la notizia tanto temuta da tutti: Odisseo non sarebbe mai più tornato. La sua nave era stata trovata distrutta in prossimità dell'isola delle sirene e tutti i suoi uomini erano annegati.
Penelope non pianse nè si disperò, ormai aveva accettato il volere del Fato, di fronte al quale lei si trovava in una posizione di impotenza. La regina uscì dal palazzo e si diresse verso il porto. A stento riusciva a camminare. Gli abitanti di Itaca le vennero incontro e le raccontarono in modo un po' più dettagliato ciò che era probabilmente successo a Odisseo, ma nessuno di essi era a conoscenza del reale svolgimento dei fatti.
In realtà, Odisseo, una volta aver raggiunto la rupe delle sirene, aveva visto quelle straordinarie creature muoversi nelle acque del mare e sulla terraferma e intonare il loro canto soave.
Lo adulavano, ricoprendo il suo nome di lusinghe. Dicevano che volevano parlargli, raccontargli ciò che lui non sapeva, quel che nessun uomo conosceva...ed erano donne dall'aspetto affascinante e dalla voce ancor più attraente.
Le loro parole carezzevoli seducevano l'eroe, mentre le creature continuavano a cantare armoniosamente....Odisseo stava quasi per arrendersi alla tentazione di raggiungerle sull'isola, perdendo tutto il suo buon senso, quando però ad un tratto sentì una figura muoversi attorno a sè: era la dea Atena venuta in suo soccorso per donargli un po' di lucidità necessaria per riflettere. Così, l'uomo cominciò a calmarsi, respirando profondamente e cercando il più possibile di ignorare le voci delle Sirene.
Poteva andare da loro, lasciarsi attrarre...gli avrebbero detto tutto ciò che desiderava sapere...ma perchè, cosa voleva veramente conoscere ? Forse le sorti della sua patria, Itaca? Ma a quale scopo? Perchè andare oltre l'ignoto e sfidare i limiti umani ? In fondo era solo un uomo, non un dio.... Le Sirene erano consapevoli della sorte toccata a Itaca e alla sua famiglia, ma a quale scopo venire a conoscenza di tutto ciò? Odisseo si rese conto che non vi era in lui nessuna curiosità di ascoltare quello che le sirene promettevano di dirgli, forse perchè sapeva che la verità sarebbe stata difficile da affrontare. La verità gli avrebbe fatto soltanto del male.
Le loro voci di miele però erano davvero irresistibili, così, cercò di liberarsi, ma i nodi della corda erano troppo resistenti e gli scorticavano la pelle. Però, mentre si divincolava come un animale chiuso in gabbia, all'eroe parve di udire una voce a lui familiare, che sovrastava i canti divini delle Sirene: era la voce di Penelope, la quale lo implorava di tornare a casa, da lei e dal loro figlio Telemaco. Vide persino riflesso sulla superficie dell'acqua il bel viso della moglie, mentre lei ripeteva di raggiungerla al più presto possibile. Le sue parole ebbero un effetto straordinario su Odisseo, infatti egli ignorò completamente il canto delle Sirene...nulla aveva più importanza se non il desiderio di tornare a Itaca. Intanto, l'imbarcazione procedeva lentamente verso il mare aperto e i compagni remavano senza sosta, ignari di ciò che era accaduto all'eroe e del cambiamento che aveva subito. Le Sirene, stupite e arrabbiate dal quel comportamento diffidente nei loro confronti, proprio mentre la nave si stava allontanando sempre di più dalla rupe, si avvicinarono ad Odisseo più di quanto avessero prima d'allora osato, e, in poco tempo, distrussero con furia l'imbarcazione e slegarono l'eroe. Così, come un violento uragano, i mostri fecero affondare la nave, che trascinò con sé tutti i marinai, compreso Odisseo.
Nessuno seppe in seguito ciò che era veramente accaduto presso l'isola delle Sirene. Penelope non poté mai venire a conoscenza dell'ultimo pensiero formulato dal marito.
I ricordi tormentavano la donna, la quale ora si trovava seduta sulla poltrona del salotto...i pennelli poggiati sul tavolino e la tela incompiuta abbandonata sul cavalletto. Un brivido le percorse la schiena quando nella sua mente riaffiorò l'immagine della dea Atena che veniva verso di lei per riportarle un'altra triste notizia riguardante una sentenza formulata dagli dei. Questi ultimi, con grande meraviglia di tutti gli uomini, avevano decretato di donare ad una donna mortale, Penelope, la vita eterna, in segno di riconoscenza per la fedeltà dimostrata nei confronti del marito. 
Così, contro il suo volere, era stata costretta a divenire immortale e ogni secondo in più sulla Terra era un attimo di dolore. Aveva visto il mondo cambiare intorno a lei e aveva assistito impotente alla morte di tutte le persone a cui voleva bene. Ora si sentiva smarrita, priva di qualcosa di essenziale e di incomprensibile...era come trovarsi all'aria aperta, ma non avere più la forza di respirare. Il cuore continuava a battere, ma la mente paradossalmente non voleva sentir ragione.
Penelope si diresse verso il balcone del suo appartamento: le braccia abbandonate lungo i fianchi, in una posizione di resa, la schiena curva a sopportare il fardello dell'eternità. Guardò il paesaggio, così cambiato nel corso del tempo. I palazzi si ergevano alti e imponenti, mentre sullo sfondo, appena accennato, si poteva intravedere un frammento di mare. Una leggera brezza scompigliava le chiome degli alberi, mentre le foglie più fragili si arrendevano alla corrente, provocando una pioggia colorata d'autunno. Ricordava l'emozione che un tempo aveva provato quando passeggiava per le vie di Itaca insieme ad Odisseo, la sensazione di serenità e di libertà che sentiva ogni volta che il vento li sfiorava, inebriandoli col suo profumo di mare. Ora non percepiva più nulla...la brezza le accarezzava il viso, senza però toccarla veramente: lo sguardo aveva perso la luminosità di un tempo, ogni gesto sembrava causarle fatica e l'espressione del viso esprimeva una gravezza e una saggezza fuori dal normale e dall'umano. Ormai Penelope, senza saperlo, era già morta da tempo.
Intanto per le vie della città, sotto di lei, la vita proseguiva. Le persone camminavano veloci e dopo poco tempo dall'inizio del loro percorso, scomparivano dietro l'angolo del palazzo di fronte. Ognuno procedeva con la propria andatura: chi con passo spavaldo ma distratto, chi invece più lentamente ma prestando attenzione a dove poggiava i piedi. Vi erano poi anime che avanzavano in coppia e allora entrambe erano costrette ad adattare il proprio passo a quello del vicino. Penelope sentiva parlare spesso di omologazione ma, mentre osservava dal balcone le persone muoversi lungo il marciapiede, percepiva qualcosa di unico in ognuno dei passanti. L'apparenza poteva confondere, ma mai celare del tutto la vera essenza e personalità di ogni essere umano.
Penelope fece un passo indietro, turbata dalla vita che vedeva muoversi sotto i suoi piedi. Il viso stanco di una donna che, come qualsiasi altro essere umano, soffriva proprio perché aveva amato e continuava ad amare...un dolore causato dall'amore.
Dopo pochi attimi di smarrimento, gli occhi della donna si abbassarono, rivolgendosi sulla strada. Penelope rimase lì, sul suo balcone, con lo sguardo emozionato......perso nel tutto.  



Ecco il testo vincitore 
del primo premio dell'edizione 2016-2017
del  Concorso letterario del liceo Maffei


TRIENNIO: "Racconto o poesia partendo da un’opera…"
 24 maggio 2017


Buona lettura!



La Tessitrice

di Lucia Bezzetto, II D


Con la lana dei giorni tesso in attesa
Aspettando una voce che venga dal porto
A dirmi “Lui viene”;
Ma ad esser sincera
Io non so se lui ancora viva
O sia morto.

Così siedo e tesso
E a volte guardo il mare
Marmoreo e ridente in pieghe di spuma
E capita che il vento
Infili una piuma
Fra l’ordito e la trama della mia tela.

Ma questa che tesso non è una vela
Destinata a spiegarsi, un giorno, sul mare
(Fato di donna
E’ tacere e filare
E attendere un uomo che tarda la sera)

Poemi e canzoni le sue eroiche gesta
Raccontano – ma io non ho fiori di loto
Che mi consolino di ciò che a me resta:
Coricarmi a sera in un letto
Che è vuoto.

Così io sfiorendomi china al telaio
Ho tessuto la mia impresa
Degna di memoria:
La storia della moglie del marinaio
Che si fece d’amore e devozione
Un sudario.

E quando vagherò
Per i campi d’asfodelo
Voi mi ricorderete
Ravvolta nel mio velo
“Paradigma di virtù,
la sposa d’Odisseo…”

Per quella che tessei,

non quella che ero.


 ≈≈≈



Ecco il testo vincitore 
del primo premio dell'edizione 2015-2016
del  Concorso letterario del liceo Maffei
 "Alla maniera di...
3 giugno 2016


Buona lettura!




 "Alla maniera di... Dino Buzzati"

IL CARILLON
Breve racconto

di Luca Bonazzi, I G




Troppo ben in vista, il suo carillon splendeva ancora in vetrina. Nessuno l’aveva spostato. Era proprio un bell’oggetto, un arnese degno d’antiche liturgie. Il legno d’ulivo profumava di sacro. «Bonfatti – Antiquario» recitava l’insegna. Ma il titolo di «antiquario», per quel figuro, era proprio un inutile complimento, pensò. Suonava come un’offesa. Sorrise. Si stupì, a ricordarsi il gusto della tensione che l’ironia ci disegna sulle labbra.
Riportò le mani alle tasche dei calzoni sfilacciati. Era inverno, e il vento spirava implacabile. Le foglie, spazzate qua e là, formavano cumuli e radure sul piano deserto di vie e piazze. Sul vetro rimase impresso ancora per qualche istante lo stampo caldo dei polpastrelli. No, inutile chiederselo, non aveva nemmeno un centesimo bucato. Non poteva più nemmeno permettersi di intenerirsi. La carta moneta vive d’una sua straordinaria gravezza.
Le saracinesche ghigliottinavano i silenzi immensi dei selciati. Un tram passò sferragliando alle sue spalle, in direzione delle chiatte e dei navigli. Antichità sinistre venivano rievocate dalle lucerne. Rabbrividì. Era ormai tardi: voleva illudersi che potesse esserci qualcuno ad aspettarlo. Chissà, un visitatore venuto da lontano, uno che non sapeva.
E, così, per l’ennesima volta affranto, riprese la strada di casa. Inchiodò lo sguardo al calendario luminescente di una farmacia. Passò uno che, scambiandolo per un amico, profferse un saluto, senza aspettare risposta. Non fece cenno d’essersene accorto. Forse, nemmeno mentiva. Il giorno dopo, sarebbe scoccato il primo anno. Trecentosessantacinque lunghissimi giorni passati a fissare il vuoto, a calarsi come un cadavere in letti solitari.
Il gioco era proprio una brutta bestia, pensò. Tutto gli aveva rubato: la moglie, gli amici, il lavoro. Solo i momenti di noia aveva riguadagnato, ma storpiati, inciviliti, parodiati. Entrò in una chiesa, a poggiare lo sguardo affaticato sul dramma d’un’antica crocifissione. Restavano solo lui e la sua vecchietta, la nonnina pietosa che, da un giorno all’altro, gli aveva offerto una stanza. Dopo tanti giorni di riottosa rinuncia, quasi si commuoveva. La stanchezza lo ardeva. Ricordava ancora: s’era presentata come un’amica d’una sua zia anziana. Subito, non ci aveva fatto troppo caso.
Ieri come allora, un solo pensiero lo attanagliava. S’avvicinava il giorno che il suo carillon non gli avrebbe più regalato il buongiorno. Era un saluto tutto privato, senza parole, fatto d’intesa. Sarebbe successo tutto d’un tratto, senza che se ne potesse accorgere. Sarebbe rimasto come un padre orfano del figlio, come una giostra senza ritorno. Tutto si sarebbe appalesato come un’amara sorpresa, come una constatazione impulsiva e costernata. D’altra parte, impotente, disarmato, avrebbe voluto forse assistere alla scena del rapimento? Di fronte al peso del denaro, lo sapeva bene, sarebbe valso a ben poco reclamare il tanto tempo speso a desiderarlo. Si sentiva come un bambino di fronte al regalo che, troppo costoso, non potrà mai acquistare. Eppure, detestava la pietà, la vanità delle elemosine.
In fondo, avrebbe potuto lavorare. Ma con che forza? Anche se sul momento non ci aveva creduto, gli avevano detto che i topi del pane e i vermi degli animali putrefatti non si generavano dal nulla. A modo loro, erano esseri viventi, infatti. Chissà che, invece, le banconote… «Ma che dico! Follie!» si rispose, ripigliando il filo dei discorsi, nell’eco di una città sempre più sola, sempre più stretta, sempre più serrata su se stessa. In direzione della periferia, i vicoli (lunghissimi, eh!) gareggiavano in miseria e squallore, sempre più vuoti, sempre meno affrettati. Forse, un tempo, c’erano stati vasi, a decorare i balconi.
Nei suoi passi, si leggevano soltanto lui e il suo carillon, lui e la sua ballerina, e il suo leggiadro passo di danza, solo accennato, fatto d’un vezzo cortese e mai ostentato, riflesso nello specchietto color madreperla. Era inutile cercare di riporne via il pensiero, o anche solo di posticiparlo. Non c’era attimo in cui la presenza dell’oggetto amato smettesse di turbarlo, facendo capolino a salutare qua e là tra le cose e i gesti della quotidianità, tra i profili eleganti delle scatoline che riempivano le mensole della cucina della casa in cui era ospite e le melodie miti suonate in strada dagli accattoni vagabondi. Ma era di sera il tripudio della nostalgia, suggellato da quel senso di vacuità che ogni cosa assume al buio quando medita se posarsi nel suo riposo o attardarsi nella veglia, incapace d’estraniarsi dal cruccio.
Aguzzò lo sguardo nelle tenebre: un gruppetto di bambini (ma non era troppo tardi?) giocava poco più avanti. Avanzò. In fondo, aveva sempre amato i bambini. Come lo videro, scapparono. Chissà che mestizia doveva aver dipinta in volto, pensò. Li vide turbati. Quasi si vergognava. Forse, anche nella sua infanzia c’erano state quelle fughe, quelle congiure fanciullesche, quei mondi e quei giochi appartati. Si stagliarono in lontananza urla complici. «Scappate, scappate, un…!» Uno (inavvertitamente?) lo spintonò. Quasi cadde. Chissà. Non ebbe tempo per voltarsi ad inseguirli tra i marciapiedi. Aveva altro per la mente.
Miriadi di case accatastate s’accavallavano ai lati del suo cammino, facendogli largo, schivandolo, ritraendosi al suo arrivo. Puzzava della stanchezza della giornata. Un ringhio allucinante gli premeva sulla scatola cranica. Ogni singolo osso era infranto, ogni articolazione spezzata, interrotta. Tra un passo e l’altro, s’interponevano attimi dispnoici e allucinati, che scompaginavano d’ansia la consequenzialità dei gesti e dei pensieri. Si passò una mano sulla fronte, aspersa di sudore. Guardò l’ora. Qualcosa fischiò tra le tenebre. Imboccò una scorciatoia: gli dispiaceva fare tardi. Non avrebbe avuto la forza di riscaldare la minestra della sera, si diceva. I neon impiegano troppo tempo a riscaldarsi, pensò.
Il pentimento s’insinuava nelle tenebre e nel puzzo delle stradine cenciose, inseguendolo ovunque. Ogni fuga si risolveva in una nuova sconsolatezza. Parallelamente, le strettoie appartate e muscose gli ricordavano gli amori dell’adolescenza, le gazzarre in compagnia, i primi ritrovi. Era un relitto d’uomo, ma, in gioventù, come mille altri, aveva amato e frequentato i teatri di nostalgica avanguardia, le più improbabili mostre d’arte, i salotti più facoltosi. Era stato quello che i più etichettano come uno snob, un amante della vita mondana e delle belle donne, un uomo senza passioni private, un esibizionista esaltato e megalomane. Nulla di più vero. Di quell’epoca, gli rimaneva un ricordo confuso e sparso, privato della sua consistenza. Il peccato antico stralciava come una lama acuminata l’oblio delle stagioni intermedie. I pochi istanti di magnificenza si rimestavano nell’ubriachezza.
Che strano, si diceva, avrebbe dovuto essere a casa da un pezzo. Le abitazioni (e dire che qualcuno, là dentro, si doveva invece sentire al sicuro!) gli si paravano di fronte sconosciute, disabitate, deserte. No, doveva essersi ingannato (ma proprio quel giorno doveva succedere, maledizione?). Conveniva tornare indietro, percorrere la strada rituale (ma quanta stanchezza!). Non rinfrancato, avanzò a tentoni per qualche passo. Perché i lampioni non facevano luce? Incappò nella forcella d’un bivio. Era venuto da destra o da sinistra? E, se da destra (sì, riconobbe un bagliore appena scorciato sul fondo della via), aveva visto, prima, quel vetro infranto, quel cartello sbilenco, quel luccichio circospetto di vetri?
Non aveva il coraggio di chiedere informazioni. Non un uscio socchiuso, non un’insegna esposta. Strano, avrebbe detto di trovarsi in un quartiere di negozi. Ogni cosa raggelava come era raggelata sulla costiera del Golgota. Ma il freddo gli impediva di trattenersi fuori di casa più a lungo. Una figura allungata si stagliava poco distante. «Scusi, Lei, potrebbe…?» avrebbe voluto dire. Rinunciò. Quello (da quando in qua aveva iniziato a parlare a voce alta?) si voltò lo stesso. No, non poteva guardare proprio lui. Eppure non c’era nessun altro. «Sì, prego?» «Nulla, nulla, mi scusi.» E se ne andò imbarazzato.
Avanzò ancora di qualche passo. Forse, se, alle porte della chiesa, si fosse fatto il segno di croce… Forse, se fosse stato capace ancora una volta di rinunciare alla sua paralitica superbia... Error in uno, error in omnibus. Qualcosa ruzzolò a terra. Alle sue spalle, gli sembrò che qualcosa s’insinuasse verso di lui. Deglutì a fatica. Si voltò. Il viandante, lungo la via assonnata, non c’era mai stato. Gridò. Nemmeno l’eco rispose. Pura suggestione, si disse. I profumi mutavano. Il tempo scorreva senza più nemmeno reclamare un senso.
No, non poteva essere vero. Per qualche minuto, esitò tra la corsa e il tremore, senza profferire un passo. Aveva mai avuto una casa? Si sentiva circondato da presenze paranoiche: in ogni anfratto di muro poteva essere incantucciato un nemico. Fu un colpo. S’accasciò a terra. Cadde come una cosa decrepita. Qualcuno (chi mai?) rideva, rideva, rideva ancora. Il sonno lo trascinava in direzioni contrapposte, come uno straccio scipito.
«L’hai fatto ancora.» «No, basta, prometto, sono cambiato.» No, non c’era più tempo. Non c’era mai stato tempo. Tra un’orda di rimpianti, avanzava una nonnina: teneva in mano un pacco imballato. «Tieni.» E glielo porgeva. Inutile rifiutare. Non ne aveva la forza. Gli si soffocò in gola il diniego. Fece un cenno d’assenso, e quella lo scartò. Qualcuno forse fuggiva, capace ancora di gridare il suo dolore. Un allarme urlò sulla notte. Più in basso, per qualche istante, a brevi, sequenziali intervalli, la convulsione dei vicoli s’annegò in un suono inusitato, simile a uno scrocchio di vertebre ossute. Ne uscì una melodia soave, alchimia di poche note metalliche. Evocava agonie antichissime, colpe implacabili. La pietà è nel gergo dei morti. Solo allora capì. La riconobbe. Era la vecchietta dell’appartamento.


FINE



                ≈≈≈



Pubblichiamo qui il testo vincitore del primo premio del Concorso
 "La miglior recensione", 28 maggio 2015. Buona lettura!




 Carlo Collodi, "Le avventure di Pinocchio"

UN PETER PAN IN LEGNO MASSELLO

di Pietro Filippini, I A


 Cosa dire di Pinocchio? La storia è ben nota: un burattino animato, formato dall’arte di un padre-falegname, “un burattino meraviglioso, che sappia ballare, tirare di scherma e fare i salti mortali”*. Ma la vita, com’è sempre, esplode in tutta la sua incontenibilità, portando Pinocchio nei guai, a conoscere il circense Mangiafuoco, i ladri Gatto e Volpe, Lucignolo, a capire che il campo dei Miracoli non esiste e che, alla fine, solo il lavoro su sé stessi rende quel che si dà in impegno, non l’ozio o la credulità.

 Il libro parla a tutti: risale al 1883, ma la lingua ottocentesca non è un ostacolo. È un libro per bambini, comunica con un linguaggio universale, indipendente dalla latitudine o dall’anno. E probabilmente è più utile ad un adulto: penetrante immediato chiaro, come un bambino. Una sorta di vademecum per esseri umani, che ricorda, ora più che mai, che le parole date contano, vanno rispettate, ma che si può fare qualcosa anche senza prepararla con mille proseliti.
 Insegna che dentro abbiamo tutti una parte bambina, che deve darci energia e grinta, non costringerci in capricci infantili, impedendoci di valutare la realtà e la verità, rendendoci veramente pezzi di legno, buoni solo per accendere un fuoco.
 Da questo libro prende vigore anche una figura sempiterna, ma mai valutata abbastanza: quella della guida. Guida intesa come genitore che dà la forma o come Fata Turchina che ci apre gli occhi ad una non sempre piacevole realtà. La Fata è una figura dolce, o meglio, agrodolce. Ha la calma e la pacatezza per spiegare ciò che è bene e ciò che è male, ma ha anche l’inflessibilità di non lasciare scuse nel perseguire la strada corretta. La Fata è l’etica, è ciò che mette paletti razionali alle anime come Pinocchio, bighellone, pigre, tendenti al vizio perché non applicano la virtù. Sempre pronta ad intervenire nel momento in cui scorge un bagliore di pentimento. E nonostante questo è un personaggio tremendamente cupo: è colei che scinde il sogno del paese dei balocchi dalla dura realtà del lavoro del somaro per comprare il latte ad un vecchio, i sogni dell’empireo dalla durezza della vita.
 È colei che porge la medicina, e alla domanda “E’ dolce o amara?”, risponde: “Amara, ma ti farà bene”**.



Carlo Collodi, Le avventure di Pinocchio, Mondadori Editore, Milano 2005, pag.8.

** Ibid., pag. 74.
 

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