Ecco i testi vincitori
del primo e secondo premio
dell'edizione 2018-2019
del Concorso letterario del liceo Maffei
31 maggio 2019
BIENNIO
I Premio Mariachiara Bertoldo V H “Sono Pazzi Questi Romani”
II Premio Stefania Martone IVH “La parola a Santippe”
TRIENNIO
I Premio Federica Adami III I “Una siepe di buio e di stelle”
II Premio Michele Castagnetti I A “Possiate accettare le mie sentite scuse”
Buona lettura!
Sono Pazzi Questi Romani
Un personaggio della Storia greca o romana si racconta:
"Adesso vi dico io come sono andate veramente le cose"
di Mariachiara Bertoldo, V H
“Aaaahh! Aaaahh!
We come from the land
Of the ice and snow…”1
Mi girai a destra e vidi il pupazzo di
Cesare che mi guardava con aria severa.
"Lo so, lo so, è ora di
alzarsi."
“…From the midnight sun
Where the hot spr…”1
Spensi la sveglia e mi alzai, pronta,
più o meno, ad affrontare un altro giorno di scuola.
Dopo aver fatto colazione ed essermi
vestita, uscii. Mentre i piedi facevano scricchiolare l’erba ghiacciata, sentii
uno strano suono. Alzai la testa e vidi dei corvi volare disordinatamente
mentre uno gracchiava.
“I Romani ci avrebbero tratto un
auspicio” pensai “Chissà cosa vorrebbe dire…”
Corvi
che volano verso ovest: brutte notizie in arrivo
Quando entrai a scuola sentii una strana
sensazione, ero eccitata e inquieta al tempo stesso.
Andai in aula e, stranamente, la prof
non era ancora arrivata. Dopo aver fatto due parole con una mia amica di
un’altra classe, ci salutammo ed iniziai a parlare con i miei compagni:
“Sapete perché la Albi non è ancora
entrata?”
“No, ma Sofia dice che oggi non ha visto
nemmeno un prof.”
Sofia arrivava a scuola sempre molto presto,
quindi questa cosa era sospetta.
Poco dopo la porta si aprì ed entrò un
uomo calvo vestito con una toga bianca e porpora.
“Buongiorno ragazzi… Oh! Ma che strane
tuniche indossate! Voglio dire, sono bellissime! Sapete, quando mi hanno
invitato a venire, non immaginavo niente di tutto questo. Il solito discorso ai
pueri della scuola, pensavo. Mi avete stupito… Per tutti gli dei! Cos'è quello
strano papiro su cui stai disegnando, signorina? Oh, adoro tutte le vostre
innovazioni! Avreste portato una ventata di aria fresca nella vecchia
Repubblica di Roma!”
“Scusi, ma lei chi sarebbe?”
“Ma come, non mi riconosce? Sono Publio
Cornelio Scipione o, se preferite, Scipione l’Africano.”
A quel punto non potei fare a meno di
intervenire:
“Ma è Scipione Scipione? Quello vero,
intendo, Scipione l’Africano?”
“Cosa ho appena detto, signorina? Certo
che sono io, l’unico, il vero Scipione l’Africano!”
Non ci potevo credere! Un vero antico
romano, vivo e vegeto, anche bello arzillo a quanto pareva, era nella mia
classe e ci stava parlando come se fossimo stati i suoi nipotini! Era il mio
sogno!
L’ora passò più velocemente di quanto
fosse possibile e ben presto suonò la campanella.
“A quanto pare me ne devo andare. È
stato un piacere ragazzi.”
Scipione stava uscendo quando,
probabilmente, vide una faccia familiare:
“Ave, Marco!”
“Ave.”
Chiunque avesse risposto con quel tono
così seccato a Scipione, di sicuro lo conosceva, e stava entrando nella nostra
classe. Quindi, avremmo passato un’altra ora con un illustre cittadino romano.
Non stavo nella pelle!
“Quell'insopportabile di Pub...
Discipuli miei, cos’è successo alle vostre toghe?!? Per non parlare di quelle
pettinature barbare e dei colori sgargianti delle vesti! Abbigliatevi da
rispettabili cittadini romani, per Giove!
Già l'ambiente mi era parso alquanto
disonorevole per accogliere personaggi del nostro rango, parliamone, nessun
affresco e nemmeno una misera statua, un busto, neanche l'immagine di una
divinità! Ma in che ambiente blasfemo ci troviamo?”
La classe rimase ammutolita, solo Lara
ebbe il coraggio di parlare. Dopotutto, lei aveva sempre qualcosa da dire.
“Scusi, potrebbe presentarsi? Penso che
tutti qui sappiano che è un antico Romano, ma…”
Dopo lo stupore iniziale, il nostro
nuovo maestro si era ripreso.
“Zitta, ragazzina, parli troppo. Per
Diana, cosa vedo? Così tante puellae e tutte con questi vestiti provenienti
dall’Ade!” penso stesse parlando dei pantaloni “Ma non avete un minimo di
pudor? Comunque, io sono Catone, detto il Censore. Infatti, non riesco a concepire
la situazione in cui versa questa assemblea. Presto, presto, tutti i viri
davanti; devo proprio fare un bel discorso.”
Relegate nelle ultime file nella classe,
ma stiamo scherzando? Catone ignorò noi ragazze fino alla fine dell’ora, se non
per citarci come cattivi esempi, mentre faceva una lezione ai ragazzi sul
romano ideale e sulla ‘donna adatta a essere la sua compagna’.
Per fortuna l’ora dopo ci trovammo in
tutt’altra situazione.
Una faccia già vista molte volte,
conosciuta, entrò nella nostra classe guardata con disprezzo da Catone, che non
gli rivolse nemmeno la parola.
“Ego! Mei, mihi, me, me. Io, Cesare
Ottaviano Augusto, Io sono il centro di tutto ciò che vedete! L'Ara Pacis? Ci
sono! Ma non solo una volta, anche dove non mi avete riconosciuto! Ho
disseminato l’Urbe di mie immagini, ho mandato le mie statue in tutto l'Impero,
volevo che i miei sudditi mi vedessero sempre. Dovevo essere costantemente
presente nelle loro vite. Ho trovato una
Roma di mattoni e l’ho trasformata in una Roma di marmo. Credete che l’abbia
fatto per rendere la città più bella, per far vivere meglio i cittadini? Ma no,
no. La politica è tutto. Propaganda, propaganda, propaganda.”
Finalmente qualcuno che si presentava
subito! In fondo in poco tempo ci saremmo arrivati lo stesso: come aveva detto
lui in persona, doveva essere costantemente per presente nelle nostre vite di
cittadini. Era Augusto, ovviamente!
“Ragazzi, vi sarete abbastanza annoiati
con quegli obsoleti repubblicani. Certo, bei valori, ma loro non conoscono
quella che fu la vera aurea aetas, l’Impero! O meglio, il mio principato, la
pax augustea. Voi, invece, dovete sapere tutto!”
E così Augusto si lanciò in una
dettagliatissima ricostruzione della sua vita, peggio delle Res Gestae, tanto
che l’ora, e anche la ricreazione, si conclusero prima che potesse arrivare a
ricordarsi dell’esistenza di Lepido.
Resosi conto del suo ritardo, Augusto se
ne andò, ma solo perché era impaziente di ricominciare il racconto in un’altra
classe.
Anche io ero impaziente. Impaziente di
scoprire chi si sarebbe affacciato dalla nostra porta dopo Augusto.
Si sentiva una voce avvicinarsi:
“Scrivi, scrivi! E Cesare entrò impavido in una nuova aula, un nuovo campo di
battaglia, pronto ad affrontare qualunque pericolo si celasse dietro la porta…”
Cesare? Era veramente quel Cesare?
Ed entrò, in tutta la sua gloria. Beh,
certo, era un po’ diverso da quello di Asterix e Obelix seduto sul mio
comodino, anche un po’ più brutto, a dire la verità, ma era proprio lui.
“Bene ragazzi, eccomi qui. L’ospite che
tutti aspettavate, Gaio Giulio Cesare. Chi potevate sperare di meglio in questa
giornata? Scrivi: Cesare conquistò i ragazzi con un umile discorso… Silenzio!
Silenzio, ascoltate… Questo rumore... lo riconosco! Un'orda di Galli si sta
avvicinando!”
Luca stava per dire che in realtà quello
che avevamo appena sentito era il rumore di un autobus di passaggio, a cui
tutti siamo ormai abituati, ma per fortuna qualcuno l'ha fermato prima.
“Mei milites, prendete le armi. Chi ha
un cavallo, monti in sella. Chi non ce l'ha, mi segua, pronto a morire!”
Così dicendo Cesare uscì dall'aula e si
diresse in cortile. Noi uscimmo divertiti sotto lo sguardo perplesso dei nostri
compagni delle altre classi e degli altri illustri romani. Ad un certo punto
Scipione si affiancò a Cesare:
“L'hai sentito anche tu vero? Penso che
siano elefanti. Ma non è possibile, no, Annibale è morto!”
“Ti ricordo che anche noi eravamo morti
fino a poco fa. Comunque, il rumore che ho sentito non era di elefanti, bensì
di Galli. Vieni anche tu con noi a combattere?”
“Pro patria?”
“Pro patria.”
Una volta in cortile, chi aveva la
bicicletta ‘montò in sella’, gli altri si attrezzarono come meglio poterono,
impugnando dizionari di greco (quando si dice ‘il peso della cultura’) o altre
armi improvvisate. Il nostro esercito era cresciuto, infatti molti altri
studenti della scuola si erano uniti a noi per combattere. Afferrai un bastone
e, con la borsa di ginnastica come scudo, cercai di restare più vicina
possibile a Cesare. Arrivammo in mezzo alla strada e in fondo alla curva
spuntò... un altro esercito? Tutti erano sconcertati, credevamo infatti che al
massimo avremmo combattuto contro un autobus. Ma non ci perdemmo d'animo e
iniziammo a correre verso i nemici.
“Signa inferre!” Al grido di Cesare
qualcuno corse davanti a tutti con delle insegne improvvisate, mentre i
presunti Galli si avvicinavano urlando: “Aaaahh!
Aaaahh!”.
Dopo un aspro combattimento qualcosa mi
colpì. Caddi a terra. Chiusi gli occhi: “Almeno morirò combattendo fianco a fianco
con Cesare.” Riaprii un attimo gli occhi e intravidi quel tanto amato profilo,
poi li chiusi, forse per sempre.
La parola a Santippe
Un personaggio della Storia greca o romana si racconta:
"Adesso vi dico io come sono andate veramente le cose"
di Stefania Martone, IV H
Ricordo
ancora la prima volta che vidi il mio futuro sposo. ‘Quant’è vecchio’ fu il mio
primo pensiero, mentre con gli occhi cercavo di comprendere l’espressione di
mia madre per capire cosa, questo matrimonio, in base alla sua esperienza, mi
avrebbe riservato.
Ma
quel giorno non trovai risposte in quello sguardo dove mi ero sinora sempre
rifugiata e in quel vuoto capii che stavo attraversando una frontiera che mi
avrebbe portato in un mondo sinora a me sconosciuto … quello delle donne
maritate. Anche se può sembrarvi strano,
per noi ragazze dell’antica Grecia, i misteri della vita coniugale si svelavano
solo dopo il matrimonio, con l’esperienza quotidiana e non deve sorprendervi
che io abbia conosciuto Socrate per la prima volta proprio in quell’occasione.
Le voci che circolavano sul suo aspetto, ‘simile a un satiro’ avevo sentito
dire, mi avevano preparato al peggio per cui non fui tanto colpita dalla sua
bassa statura, dai suoi lineamenti grossolani o dal modo sciatto in cui portava
il suo chitone, quanto piuttosto dal suo aspetto vecchieggiante.
In
un attimo vidi la mia giovinezza sfiorire accanto a lui e mi sentii di colpo
appassita.
Già
immagino che la maggior parte di voi, sentendo il mio nome, pensi
istintivamente a quello che di me è stato raccontato, facendomi passare come
una donna eternamente bisbetica e litigiosa. Ho sentito pure dire da qualcuno
che se mio marito passava tanto tempo fuori di casa era per non subire, tra le
mura domestiche, la mia presenza …
E
allora io vorrei dirvi: ‘vi immaginate come è stata la mia vita fianco a fianco
con un uomo tanto singolare?’
A
quei tempi, per noi donne, non c’era tanta possibilità di scegliere. Spesso era
la natura a determinare il nostro destino. Chi nasceva dotata di grande
bellezza e arguzia, poteva ambire a conoscenze distinte, che l’avrebbero
inserita, per così dire, ‘in società’. La mia unica bellezza e particolarità
era la mia chioma fiammeggiante, che tanto piaceva a Socrate. Per il resto non
mi sono mai considerata né particolarmente intelligente né così affascinante da
potermi fare strada da sola nel mondo. Però una mia dote, se me lo consentite,
ve la voglio dire. Possiamo chiamarla praticità o capacità di trovare
rapidamente soluzioni ai piccoli problemi quotidiani. Proprio il contrario del
mio caro marito che aveva la testa perennemente fra le nuvole, perso a
interrogarsi sui problemi dell’universo… immaginatelo alle prese con la
gestione di una famiglia.
All’inizio
lo ascoltavo a bocca aperta quando provava a farmi capire come le cose non sono
quello che sembrano e mi bevevo le sue parole lasciandomi cullare dal loro
suono. Ma poi mi accorgevo che anche nelle cose più semplici venivo colta da
dubbi, al punto di non riuscire più a stare dietro alle faccende quotidiane.
Per esempio quando dovevo imbastire una cena mi incantavo a pensare all’essenza
del cibo che stavo cucinando, finché Menesseno mi tirava l’orlo del peplo e mi
guardava con gli occhioni affamati.
Con
gli anni però la consuetudine ha portato via la magia anche perché, il nostro
filosofo, quando si sedeva a tavola reclamava un pasto sostanzioso, altro che
parole … Eh no, per quelle bastava lui.
Non
parliamo poi di quando si metteva in mente di giocare coi nostri figli. Ricordo
un giorno di maggio in cui erano tutti e quattro fuori, davanti alla porta, e
mi sono fermata ad osservarli compiaciuta di vedere Socrate finalmente
comportarsi da padre … questo finché non ho sentito i suoi discorsi.
Era
lì, pensieroso, con Lamprocle e Sofronisco che lo guardavano perplessi mentre
indicava un sasso che Menesseno teneva sul palmo della mano: - Dunque tu lo
chiami sasso, ma sei sicuro che sia il suo vero nome? E se in realtà noi con
“sasso” indicassimo il semplice materiale di cui è composto ma avesse una
sostanza impalpabile con un altro nome?
O se fosse il contrario? E chi ti dice che questo sasso è così come lo
vediamo? E se fosse una distorsione
operata da noi su un oggetto che ha tutt’ altra forma? – Il povero Menesseno
scappò in cucina piangendo e Socrate scuotendo il capo, si allontanò,
incompreso, in cerca di discepoli dall’immaginazione più fervida.
Peggio
ancora era quando i ragazzi, che in qualche loro modo assorbivano le domande
paterne, le sottoponevano a me. In quei casi davvero mi irritavo
incredibilmente, anche perché, a differenza del loro padre, i miei figli mi
stimavano intelligente e si aspettavano che io sapessi rispondere.
Immaginatevi
dunque come, giorno dopo giorno, crescesse la mia esasperazione verso
quest’uomo, che ormai passava tutto il suo tempo a gironzolare per le strade di
Atene, circondato da giovanotti sfaccendati che lo veneravano come maestro.
Almeno si fosse fatto pagare per tutta la sapienza che dispensava. Neanche una
dracma, perché ‘lui era un maestro e non un mercante!’.
Spero
che adesso capirete che nessuna donna sarebbe riuscita a starsene silenziosa e
buona tutto il tempo. Quando riuscivo a intercettarlo mi facevo ben sentire,
come no. Anzi credo che le mie sfuriate, riecheggiando per le bianche strade di
Atene, abbiano contribuito alla mia fama.
Ma
credete che i miei rimbrotti lo scuotessero? Neanche questa soddisfazione mi
dava. Potevo rovesciargli addosso le
ingiurie più ignominiose ma niente faceva breccia nella sua imperturbabilità.
Quando era insieme a qualcuno riusciva poi a dare il meglio di sé, come quella
volta che lo vidi comparire insieme a un nuovo amico in ritardo di tre ore
rispetto al previsto e lo presi di mira con una raffica di imprecazioni. Lui rimase
a guardarmi sereno, con un lampo irrisorio negli occhi.
Allora
gli rovesciai addosso un vaso di acqua sporca e lo sentii dire, rivolto al
giovane: -Non dicevo, forse, che il tuono di Santippe sarebbe finito in
pioggia?-
Forse
ancor più di lui mi irritavano i suoi discepoli che lo seguivano ovunque e, per
attirare la sua attenzione facevano a gara a importunare i poveri passanti,
all’agorà, al porto, per le strade, ponendo domande simili a quelle sul sasso
per dimostrare che noi comuni mortali della vita non abbiamo capito niente.
Salvo poi riunirsi a casa nostra, a mangiare e bere più di un esercito, perché
in fondo i filosofi non sono immuni dalle umane necessità.
So
che chi di voi mi ha sempre immaginato come una megera farà fatica a credermi
ma quando l’ho visto per l’ultima volta dietro le sbarre della prigione
determinato a lasciare questa vita pur di non tradire le sue convinzioni, mi
sono sentita invadere da un sentimento di profonda ammirazione per la sua
forza. Anche in quell’occasione però il mio pazzo marito è riuscito a sorprendermi
quando stringendogli le mani gli chiesi ‘Ma tu dunque vuoi morire da
innocente?’ e lui mi rispose ‘Perché, avresti preferito che morissi
colpevole?’.
E
questo è di lui il ricordo più dolce che porto nel cuore.
Una siepe di buio e stelle
La Scienza
di Federica Adami, III I
Siamo sdraiati sul prato nella notte limpida e
tacendo guardiamo lontano.
A sfiorarci la pelle giovani steli d’erba e
qualche margherita, davanti a noi l’universo.
Con le braccia larghe e le pupille dilatate
cerchiamo invano di accogliere l’infinito, di possederlo e addomesticarlo e per
un momento ci illudiamo di riuscirci. Solo dopo, con un senso di mancamento ci
accorgiamo che esso ci sfugge, trabocca su di noi e si espande schiacciandoci.
Nel petto, tra le costole e i polmoni, abbiamo
un peso opprimente e magnifico.
Stiamo qui, fermi, in silenzio, vittime
volontarie di un’altalena di vertigini, respirando il cielo.
Ci sembra così vasto, così incommensurabilmente
esteso, eppure non lo è. Siamo nel centro esatto dell’universo osservabile, di
una sfera il cui limite dista da noi 47 miliardi di anni luce in cui si trova
tutto ciò che ci è concesso vedere. Contiene settanta triliardi di stelle
organizzate in due bilioni di galassie e per quanto a noi risulti difficile
persino immaginare numeri tanto grandi il solo fatto di poterle contare prova
che il nostro universo è finito, è misurabile. In fondo, rispetto a ciò che ne
è al di fuori, non è che un granello di polvere.
Non c’è, né ci sarà mai tecnologia che possa
allontanare questo limite perché esso non esiste a causa della nostra
incapacità di vedere ma di quella della luce di raggiungerci. Ci sono luoghi
che semplicemente sono troppo lontani perché la loro luce faccia in tempo ad
arrivarci. Si trovano a una distanza superiore dell’età stessa del cosmo e di
tempo per farsi vedere non ne avranno mai abbastanza. Più ci si avvicina al
limite più la fisica entra in confusione e come in una geometria di Escher ogni
cosa ci sfugge, lo spazio si comprime, il tempo si azzera. Oltre, tutto ci è
sconosciuto e si dissolve in teorie inconcludenti, l’oltre non ci compete.
Quando capiamo quanto quei luoghi sfuggano alla
nostra portata pensiamo a quel peso che ci comprime il petto e notiamo quanto
somigli a nostalgia. Nostalgia di luoghi in cui non siamo mai stati e proprio
per questo intimamente nostri.
D’un tratto il prato sotto di noi non esiste
più, sediamo sul bordo dell’universo, le gambe a penzoloni nel nulla.
Placidamente fissiamo l’indistinto che ci sta davanti, le mani in grembo, i
capelli sciolti. Siamo davanti a una nuova siepe fatta di buio e stelle. Al di
là si estende un’immensità infinita di cui siamo veramente padroni. Scorrono
fiumi di polvere e luce, galleggiano nel vuoto gocce di plasma. Mondi nuovi e
meravigliosi si aprono davanti ai nostri occhi e bambini celesti giocano con la
materia oscura correndo tra le galassie.
A sopraffarci non è più l’universo ma il potere
che la nostra mente ha su di esso. Siamo piccoli padroni del cosmo, indiscussi
signori di tutto ciò che non vediamo.
E mentre sotto i nostri occhi i nostri sogni
prendono forma a quarantasette miliardi di anni luce da noi la Terra ruota
indisturbata intorno al suo piccolo sole.
Possiate accettare le mie sentite scuse
La Scienza
di Michele Castagnetti, I A
Pitagora
fu tra i primi ad avere la memorabile intuizione che la Terra fosse sferica.
Troppo scarne sono le informazioni a riguardo, e non possiamo sapere al giorno
d’oggi con quali passaggi arrivò a tale conclusione. Aristotele azzardò una
misura, non molto precisa a dire il vero, decretando che la Terra dovesse
essere una sfera “non molto grande” in base ai suoi studi sulle
costellazioni e sulle eclissi. Eratostene addirittura constatò che la circonferenza
della Terra fosse di 250.000 stadi, con un errore del 2% circa rispetto alla
più recente misurazione effettuata; ci riuscì tramite complessi calcoli che si
basavano sull’angolo che l’ombra formava col terreno a mezzogiorno del
solstizio d’estate nella città di Alessandria.
Scienziati,
matematici e filosofi, quelli citati, che riuscirono nella mirabile impresa di
stabilire la forma e le dimensioni del nostro pianeta con i pochissimi mezzi
che avevano a disposizione. Una storia fatta di ricerche, intuizioni e calcoli
che merita di essere raccontata a chi ancora non la conosce, che tuttavia
presenta un unico fondamentale aspetto che stona: si erano sbagliati, la Terra
è piatta.
Così
iniziava il mio racconto, e sarebbe proseguito su quest’onda se non fosse
successo qualcosa di inaspettato.
Mi
capita spesso di sentirmi osservato da importanti personaggi del passato in
diverse situazioni, come se si sedessero di fianco a me per vedere ciò che
faccio; c’è Einstein mentre provo a risolvere qualche equazione, ci sono
Rosalind Franklin, Watson e Crick quando fornisco una traballante motivazione
del così basso numero di mutazioni del DNA, c’è Euclide quando cerco di
risolvere problemi con triangoli rettangoli e ci sono altri in molte altre
occasioni. Questi di solito si limitano ad annuire ai miei successi e - in
special modo - a storcere il naso davanti ai miei strafalcioni. Ma questa volta
andò diversamente. A leggere ciò che stavo scrivendo erano in molti, e per la
precisione in cinque, Aristotele, Eratostene, Cristoforo Colombo, Copernico e
Galilei. Erano tutti lì, ad alitare sopra le mie spalle tirandosi discrete
gomitate l’uno all’altro per fare in modo che i loro occhi raggiungessero le
parole che avevo scritto prima che le mie braccia le coprissero nuovamente per
buttare giù, non appena arrivata l’ispirazione, una nuova frase. Videro ciò che
avevo scritto. “La Terra è piatta”. Rilessero quella frase più e più volte. Le
loro espressioni riflettevano un senso di vuoto. Poi reagirono.
<Beh
certo questa è una sorpresa>, furono le parole di Aristotele, che si lasciò
andare ad un’affermazione tanto ovvia quanto necessaria sul momento, per
spezzare quel silenzio carico di dubbi. Molto più brusca fu la reazione di
Eratostene, il cui sprezzante commento fu <Non ci credo. Questo ragazzo sbaglia>. <Ricordati che questo scolaro sta scrivendo
nel 2019, 377 anni dopo la morte del giovanotto che mi sta di fianco>, proruppe Copernico indicando Galilei, <immagino che in questo lungo periodo
l’umanità abbia fatto scoperte che noi non potremmo nemmeno concepire>. <Oppure sono stati creati altri culti che
ti obbligano a rimangiare ciò che hai detto, se ciò dimostra che nel loro testo
sacro c’è un errore! Maledetto Tommaso Caccini!>. Era evidente che Galilei
non avesse ancora digerito l’abiura che aveva subito. Aristotele allora
intervenne nuovamente, prendendo le parti di Copernico: <Abbiamo tutti dedicato parte del nostro
tempo sulla Terra a cercare di capire la forma del mondo e il modo in cui
interagiva con gli altri pianeti, quindi è ovvio che ci risulti incomprensibile
una tale sconvolgente rivelazione; ma sappiamo tutti come una manciata di
secoli possa stravolgere idee che prima erano radicate nella cultura dei
popoli. Forse anche noi ci sbagliavamo>. Di tutt’altro pensiero era Galilei:
<Facile per te rinunciare all’idea di una Terra rotonda. Hai ipotizzato che
dovesse essere così, hai detto che era un sfera “non molto grande” e sei
passato oltre>. <Per i mezzi che
avevo, ho fatto un lavoro niente male>. <Avevi gli stessi mezzi di Eratostene, che
a quanto pare ha fatto molto meglio di te>. <Considera che io ero impegnato in special
modo nella filosofia, che ha preso molto del mio tempo e in cui sono stato
decisamente prolifico>. <A fare sillogismi>. <Anche, ma è riduttivo ricordarmi per
quello. E comunque i sillogismi e la logica hanno avuto un grande impatto nella
filosofia successiva>. <Capirai>.
<Capirai?>. <Capirai>. <Vabbè>. Fortunatamente, Aristotele la prese con
filosofia.
<Comunque,
capirete bene che io non potrò mai accettare un’idea della Terra che non sia
quella a cui sono abituato>. A
parlare questa volta era Colombo. <Ho navigato dalla Spagna fino alle Indie,
attraversando l’infinito oceano>. Gli
altri si guardarono. <Non sei mai
arrivato in India, Cristoforo> tagliò
corto Eratostene. Ne seguì un breve dialogo in cui Colombo, scioccato, scoprì
l’America. Poi prese parola Copernico:
<Ad ogni modo, Magellano e poi altri effettivamente fecero il giro del
mondo; tutto ciò è in contrasto con la teoria proposta dal ragazzo>. Parlò Galilei:
<Vero è -e badate che non
voglio dare ragione a ciò che dice il giovane- che a noi sono state fatte passare
per vere delle enormi falsità, e a dirla tutta non abbiamo prove che sia stata
realmente compiuta la circumnavigazione del mondo>. La discussione proseguiva.
E
io che volevo solo creare una storia con un elemento fantastico! Mai la mia
immaginazione fu tanto fervida e realistica, al punto che più di una volta mi
voltai a controllare che dietro di me non ci fosse nessuno a discutere. E per
quanto non notassi mai nessuno alle mie spalle, mi risultava impossibile
proseguire nella scrittura del racconto. Il pensiero che basare la mia storia
su una menzogna tanto grande come la negazione della sfericità della Terra
potesse avere ripercussioni sui sentimenti di grandi scienziati del passato mi
bloccava completamente. E nonostante la storia che avevo in mente fosse
stupefacente per vividezza di dettagli, brillantezza di idee e introspezione
psicologica dei personaggi, mi decisi a cancellare le poche righe che avevo
buttato giù.
Ciò
non passò inosservato agli occhi di Colombo, che prontamente avvertì gli altri,
ancora presi nelle loro supposizioni. <E
ora cosa sta succedendo?>, si domandò Eratostene, <Non avrà mica cambiato
corrente di pensiero nel giro di cinque minuti?>. <Che si sia reso conto
delle baggianate che aveva scritto?>. <Scommetto che aveva deciso di inventare
una nuova teoria solo per conquistare un minimo di celebrità>. Questa
ipotesi fu subito accettata dagli altri, che vedevano in essa la soluzione, un
modo per non dover più pensare al terribile dubbio che li aveva afflitti nei
minuti precedenti. <I giovani non sono più quelli di una volta>. <Gli farebbe bene un po’ di duro lavoro>.
<E di studio>. <E di studio! Esatto!>. <Permettersi di confutare le idee dei
maestri del passato senza un minimo di cultura>. <Vergognoso>. <Andiamocene, abbiamo
altro a cui pensare noi>. E tutti insieme se ne andarono.
Capirete
che essere insultato da alcuni dei più importanti scienziati e filosofi di
sempre non sia qualcosa di semplice da accettare, soprattutto se è tutto nato
da una grandissima incomprensione. Poco importa che sia tutto avvenuto nel
misterioso mondo della mente di un ragazzo, le parole di Galilei sono di fuoco
e trascendono dall’immaterialità dei pensieri per infliggere ferite profonde al
cuore, e non sono da meno i commenti degli altri antichi maestri.
Per
questo, confido vivamente nella vostra comprensione, e spero mi possiate
perdonare se non vi consegno il racconto per il concorso della biblioteca. Non
ho trovato la forza di cercare nuove idee, una nuova trama per la mia storia,
dopo ciò che era avvenuto.
Porgo
le mie sentite scuse, e ringrazio per la comprensione.
...
Ecco i testi vincitori
del primo e secondo premio
dell'edizione 2017-2018
del Concorso letterario del liceo Maffei
25 maggio 2018
BIENNIO
I Premio Laura Mirandola V E “Un cuore avvelenato”
II Premio Tommaso Casazza V A “Parricidio a Roma”
TRIENNIO
I Premio Lia Albi II D “Gli ortaggi non fanno parte della
Matematica”
II Premio Jacopo Sala I I
“Lettera
dal fronte della Prima Guerra Mondiale”
Buona lettura!
Un cuore avvelenato
Giallo nell'antica Roma
di Laura Mirandola, V E
Il mantello rosso del comandante veniva sferzato dall’aria
che entrava dalla finestra, mentre lui si dirigeva rapidamente verso la stanza
del Padrone. Tutto ciò che riuscivo ad udire erano mormorii bassi, fruscii e
sospiri a cui non ero in grado di attribuire una causa, ma sapevo che qualcosa
non andava: il comandante non si era nemmeno tolto l’elmo.
In seguito, fu solo quando Domitilla, la mia Signora, mi
chiamò attraverso la cucina, che tutti i miei dubbi vennero assolti: una figura
distesa a terra, immobile, gli occhi aperti e lo sguardo vitreo, la pelle
pallida e l’anello del Padrone che scintillava sull’anulare. Ricordo che era
rosso, un rosso spento, e la forma strana della pietra, un po’ ricurva e un po’
appuntita. Fu l’unica cosa che davvero mi sconvolse nello scenario che avevo
difronte: non il corpo esanime dell’uomo con cui vivevo da anni, non il viso
inespressivo della moglie mentre il marito veniva portato via, e di certo non
il comandante che dichiarava l’avvenimento un suicidio. Fu il pensiero di
quell’anello che attimo dopo attimo, mi logorò dall’interno, perché io ero
sicuro ci fosse qualcosa di strano, di diverso, ma per quanto cercassi nei
meandri della mia mente l’unica risposta in grado di regalarmi un po’ di pace,
non riuscivo a venirne a capo. E la verità era che l’uomo orgoglioso che
conoscevo così bene, non avrebbe mai preso la decisione di togliersi la vita.
Per nessuna ragione.
«Tabellarius, devi consegnare un messaggio a mio nome.
Riferisci queste esatte parole, e bada bene a non scordartele: “Gioca bene le
tue carte”» fu l’unica cosa che Domitilla mi disse, prima di spedirmi
attraverso le strade luminose di Roma, dove la gente procedeva con la sua
quotidianità.
Raggiunsi la Mansione al limitare del bosco in una
mattinata di cammino, e come mi era stato ordinato cercai Lucio Gaio, ufficiale
al quale era destinato il mio messaggio. L’uomo dai capelli scuri e gli occhi
chiari, non appena udì le parole di Domitilla, si limitò a sorridere seduto su
uno sgabello in legno e percorse con me la strada di ritorno, ancora sorridente
in sella al suo cavallo.
Fu proprio durante questo tragitto che lo vidi: un anello uguale
a quello che indossava il cadavere del Padrone, stesso colore e stessa forma,
non c’erano dubbi. L’unico problema era il luogo in cui lo avevo scorto: oltre
carri e cavalli, uomini e merci, scudi e soldati, quella terribile pietra rossa
se ne stava appesa alla porta d’entrata della fatiscente dimora della maga
Livia.
Questa visione mi sconvolse per giorni, e non feci altro
che pensarvi e ripensarvi: era qualcosa di insensato e di orribile, come se la
morte del Padrone fosse stata causata da qualcuno e non da qualcosa. Questo
sospetto non faceva che crescere in me, ma solo un giorno tra tanti ne ebbi la
conferma definitiva: tornavo da un viaggio di tre giorni per recapitare un
messaggio ad un conoscente di un villaggio vicino, quando udii casualmente gli
sprazzi di una conversazione tra Domitilla e Lucio Gaio:«Sono contenta che tu
sia qui, e che tutto si sia concluso per il meglio.» disse la Padrona, con voce
flebile ed esitante.
«Non dovrai più preoccuparti di nulla mia cara. Ci siamo
comprati la nostra felicità.»
Parole che mi sconvolsero, che mi lasciarono con l’amaro in
bocca e il desiderio di fare luce su tutta la questione. Dovevo scoprire che
cosa fosse accaduto al Mio Signore.
La prima cosa che feci, fu recarmi da Lartia, ancella
privilegiata di Domitilla. Non era la prima volta che la vedevo: i capelli
biondi ben curati e l’andatura regale non si sposavano per niente con la veste
da serva e i calzari logori, ma nonostante tutto anche io notai la sua
incredibile bellezza, e il fascino di un viso così dolce. Senza perdermi in
convenevoli, le chiesi se si fosse mai recata per conto della Padrona dalla
maga Livia, nella parte est della città. Il suo sguardo terrorizzato a
guardingo mi rispose prima delle sue parole: «Una sola volta vi ho messo piede:
dovevo ritirare un pacchetto, ma non ho idea di che cosa contenesse, e vi prego
di non farmi più domande.» sussurrò, prima di allontanarsi in tutta fretta.
Senza indugiare oltre, mi diressi di nascosto alla casa
della maga, pregando che qualcuno non avesse avuto bisogno di me proprio in
quel momento, e quando vi giunsi la pietra rossa era ancora là, a scintillare
in tutto il suo splendore.
Internamente la dimora non era meglio che esternamente: gli
oggetti erano sparsi ovunque, ad ogni passo che facevo era difficile non andare
a sbattere contro qualcosa e quando il gelo s’impossessò delle mie ossa mi
pentii all’istante di quell’azione avventata.
Livia mi guardava da dietro la folta chioma, gli occhi
fiammeggianti promettevano cattiveria e il sorriso beffardo lasciava un alone
di mistero. Anche stavolta, prendendo un respiro coraggioso, andai dritto al
punto: «Mia Signora, ha mai venduto una di quelle pietre nell’ultimo periodo?»
chiesi, indicandola con la mano.
Il ghigno della donna si allargò e il mio cuore prese a
battere furiosamente.
«Potrei averla venduta come no. Che cosa ottengo in cambio
delle mie informazioni?»
«Si tratta di vita o di morte, devo saperlo, ma sono un
semplice servo, non ho molto da offrirvi.»
Si spostò per venirmi più vicino e la sua mano sfiorò il
mio braccio.
«Solo perché siete un uomo giusto, viandante, e perché le
vostre intenzioni sono pure. Ho venduto un anello che non era solo un anello,
ma ciò che cercate è sotto il vostro naso, non date nulla per scontato.»
Di ritorno, deviai per recarmi al tribunale: ormai dovevo
rivelare ciò che avevo scoperto e fare giustizia, anche se poteva compromettere
il mio lavoro e la mia vita, era la cosa giusta da fare e di certo non mi sarei
tirato indietro proprio in quel momento.
Attraversai il foro e il mercato, mentre i mercanti
urlavano a gran voce le loro offerte per attirare i passanti, ma proprio
davanti ad una bancarella di gioielli, mi bloccai di colpo: una figura nera, il
cappuccio alzato, stava impegnando un anello. Fu proprio in quel momento che
risolsi totalmente l’enigma che mi ronzava in testa: quella pietra rossa accesa
era l’anello del padrone, l’ avrei riconosciuta ovunque, e la figura era il suo
assassino. Cercai di farmi largo in mezzo alla folla, urlando a gran voce in
direzione dell’incappucciato, facendolo però allarmare e scomparire dalla mia
visuale per qualche secondo. Lo individuai nuovamente e affrettai il passo,
fino a quando entrambi non ci ritrovammo a correre per le vie di Roma. Fu
quando cadde davanti ai miei occhi, inciampando in un gradino, che l’orlo della
sua veste si sollevò appena, scoprendo lividi scuri sulle gambe magre ed esili. Il cappuccio
scivolò via, e due occhi azzurri mi trafissero, terrorizzati ma determinati.
«Non dovevate seguirmi.» disse Lartia, la voce appena
udibile e le mani tremanti.
«Dovete darmi delle spiegazioni, a cominciare da
quell’anello che portate al dito.» risposi, con un tono più duro di quanto
volessi.
La vidi fare un respiro profondo e sollevarsi da terra,
mentre una smorfia le si apriva in viso, causata probabilmente dai lividi.
«Sapete, questo viso è un dono, ma anche una maledizione.
Mi ha concesso di rimanere in vita, ma mi ha portato via così tanto.» Sospirò,
gli occhi colmi di lacrime « La mia anima è stata violata irreparabilmente,
perché in questo mondo sono un oggetto affascinante che tutti possono
maneggiare a proprio piacimento, ma ad un certo punto mi sono stancata di
essere solo un oggetto. Questi lividi sono i segni visibili, ma sono quelli non
visibili a distruggermi giorno dopo giorno, perciò ho rubato l’anello del
Padrone, e l’ho sostituito con uno avvelenato, donatomi dalla maga Livia.
Voleva solo aiutarmi, non ne ha colpe. Io sono l’assassina, la traditrice che
ha avvelenato l’uomo che doveva servire e, sarò onesta, lo rifarei ancora.
Sapevo che Domitilla voleva lasciare il marito e che sarebbe stato semplice, in
caso di bisogno, far ricadere le colpe su di lei. Ora la scelta è solo vostra,
Mio Signore. Se credete che io debba pagare per le mie azioni, allora
proseguite dritto per la vostra strada e io non vi fermerò, ma se capite anche
solo in parte il macigno che trasporto, ignorate la faccenda e rendetemi,
almeno in parte, libera.»
«Mi state chiedendo di rischiare la mia vita per mantenere
il vostro segreto?»
«Si, è proprio ciò che sto facendo.»
I pensieri mi si affollarono in testa, e tutto ciò che
riuscii a vedere per qualche istante furono le gambe piene di lividi di Lartia
e il viso esanime del Padrone. Era tutto un enorme groviglio senza senso e mi
resi conto che le ingiustizie avvenute erano infatti prive di una motivazione
logica. Poi, come se un unico raggio di luce avesse illuminato l’oscurità in
cui stavo piombando, il cuore mi diede la risposta che cercavo e determinò la
mie scelte da quel giorno fino alla fine dei tempi.
Parricidio a Roma
Gli ortaggi non fanno parte della Matematica
Continuazione di un incipit (D.BUZZATI, Sessanta
Racconti: “Sciopero dei telefoni”
di Lia Albi, II D
Il giorno che ci fu lo sciopero
dei telefoni e dei telefonini, si lamentarono nel servizio irregolarità e
stranezze. Fra l’altro, le singole comunicazioni non erano isolate e spesso si
intrecciavano, cosicché si udivano i dialoghi degli altri e vi si poteva
intervenire …
Finalmente, dopo
giorni di temporali, brillava sulla città un sole splendente che si rifletteva
sulle bianche pareti delle case rendendo quasi impossibile la vista. Le strade
erano inondate del tipico profumo di pioggia che è impossibile descrivere ma
che ognuno ha ben presente. Il cielo iniziava già a tingersi di tonalità calde
per l’avvicinarsi del tramonto quando una signora dall’età avanzata conversava
al telefono con il figlio. Era seduta sulla sedia a dondolo che il marito le
aveva regalato pochi anni prima e oscillava dolcemente. Una ciocca argentata di
capelli le incoronava il viso in modo delicato, ondeggiando di tanto in tanto
per la leggera brezza. Teneva in grembo il romanzo che stava leggendo prima che
il figlio interrompesse il suo momento di tranquillità quotidiana: infatti il
tardo pomeriggio era l’unica parte della giornata in cui le era possibile
prendersi una pausa da tutto il mondo assillante intorno a lei, mentre il
marito con gli amici era al solito club lì vicino. Almeno questo era ciò che la
donna diceva, ma in realtà, proprio per la temporanea solitudine, ogni giorno
la nostalgia lievemente la tormentava. Inesorabilmente le tornavano alla mente
molti ricordi che avrebbe preferito dimenticare, primo fra tutti, la lontananza
del figlio. Infatti il ragazzo (ormai uomo), molti anni prima, seppure con un
po’ di ritardo rispetto agli amici, aveva lasciato il nido materno soprattutto
per iniziare a vivere in autonomia e crearsi una famiglia; per la sua mancanza
la donna qualche volta veniva presa dalla tristezza. Per questo quando il
figlio la chiamava nel suo momento sacro si fingeva infastidita, ma in realtà
quando lo rimproverava, l’uomo non poteva sapere che sul volto della madre
compariva un dolce sorriso per il suono della voce familiare. Quel martedì
pomeriggio egli voleva sapere di che cosa lei potesse avere bisogno, dal
momento che sarebbe passato per cena con la figlia e che per strada avrebbe
potuto fermarsi al supermercato. Lei ci pensò un attimo e poi iniziò ad
elencare: “Allora, potresti prendere sicuramente del pane, poi uova, zucchero,
olio, zucchine dato che a tuo padre sembrano piacere molto, farina, patate,
mele e…sono certa che ci fosse qualcos’altro… ma ora mi sfugge proprio…”.
Stessa ora,
stessa città, diversa conversazione, un ragazzo dalla chioma riccioluta si
sentiva come se stesse cercando di evitare una pioggia violenta al riparo di un
albero spoglio. Il giorno seguente infatti avrebbe dovuto affrontare una prova
di matematica per cui non era assolutamente preparato, un po’ perchè
effettivamente quella materia non era mai stata il suo forte, un po’ perché,
anche se in essa avesse avuto qualche minima capacità, l’avrebbe sprecata a
causa dell’enorme odio nei suoi confronti. Dall’altro capo del telefono,
l’amica tentava disperatamente di spiegargli in poche ore il programma di tre
mesi, tracciando disegni immaginari in aria per la frustrazione, opere d’arte
che l'altro non avrebbe comunque potuto vedere. Il ragazzo in un primo momento
aveva veramente tentato di seguire la conversazione, ma un po' per la noia, un
po' per la mancata comprensione, aveva finito per lasciare lo sguardo vagare
fuori dalla finestra. Le ombre urbane lentamente si allungavano sempre di più.
Unica presenza umana nella strada deserta era la solita signora che ogni
martedì pomeriggio sedeva sulla sedia posizionata in un punto strategico della
grande terrazza che sovrastava l'edificio di fronte; da lassù doveva ammirare
un paesaggio meraviglioso, dato che probabilmente era in grado di scorgere le
colline dietro la città. Il ragazzo pensava a come dovesse essere bello
trovarsi nei suoi panni: niente scuola, niente lavoro, moltissimo tempo libero
a disposizione. Scosse lievemente la testa come per tentare di prestare
nuovamente attenzione alla ragazza disperata dall'altro capo della linea, ma
quando realizzò che era impossibile (oltre che inutile) tentare di recuperare
il filo del discorso, ricominciò a fantasticare sulla sua futura vita da
pensionato. Nella sua innocenza giovanile non pensava nemmeno che sarebbe stato
un peccato fare un salto di qualche decennio avanti nel futuro per poter subito
vivere in un tale ozio. Ma improvvisamente si ridestò quando sentì provenire
dal telefono: “Insalata!”. “Insalata?”, pensò ad alta voce. Va bene, non
ascoltava le parole dell'amica da ormai dieci minuti buoni, ma lo stupiva come
fosse possibile che quella, da formule di matematica, fosse riuscita ad
imbastire un discorso sugli ortaggi. D'altra parte però non osava nemmeno
interromperla perchè in questo modo avrebbe dovuto ammettere che effettivamente
non seguiva più il suo complicatissimo discorso già da un po', ed era certo che
se le avesse rivelato ciò, non avrebbe più potuto usufruire
dell'importantissimo aiuto che l'amica gli concedeva ogniqualvolta fosse in
difficoltà. Ma non aveva mai sfruttato la loro amicizia perchè la ragazza si
era sempre generosamente offerta di aiutarlo, probabilmente poiché provava
anche un po' di pena per lui. Questo comunque non gli dispiaceva, le poche
soddisfazioni che aveva ottenuto in ambito scolastico le doveva tutte a lei.
Mentre il ragazzo rifletteva su pensieri secondari e al momento fuori luogo per
la situazione, l'elenco di ortaggi continuava e arrivato a “melanzane” decise
di intervenire: “Ammetto di essermi perso qualche collegamento, ma non capisco
proprio cosa centrino l'insalata e le melanzane”. “Che domande sono?
Probabilmente le melanzane le griglierò come sempre e l'insalata la utilizzerò
come contorno”. A questo punto il ragazzo era parecchio confuso e verrebbe
subito da chiedersi come mai i due interlocutori non si fossero resi conto
della differenza nella voce con cui erano al telefono; ma la donna con
l'avanzare dell'età aveva perso parte di quell'udito che comunque nemmeno in
gioventù si era contraddistinto per la finezza, il ragazzo semplicemente non ci
aveva fatto caso. Così il discorso continuò: una elencava svariati alimenti,
l'altro rispondeva con formule matematiche. Poco dopo, il giovane decise di
terminare la telefonata, ancora confuso per il malinteso di cui non era a
conoscenza; la signora invece riappoggiò il cellulare in grembo, soddisfatta
dell'ordine fatto al figlio.
Altrettanto
esterrefatta era la ragazza che fino a poco prima stava impartendo ripetizioni
di matematica: dalla sua prospettiva, l'amico aveva bruscamente interrotto la
telefonata proprio nel punto più rilevante della sua spiegazione (non poteva
sapere che la sua linea era semplicemente caduta, sostituita da quella della
vecchia signora, e che da ormai alcuni minuti quella stava conversando con il
ragazzo). Ancora stupita ed anche un po' stizzita, uscì di casa per avviarsi
verso il pranzo programmato. Lei aveva fatto del suo meglio per aiutarlo e
sostenerlo il più possibile laddove fosse carente, ma se il ragazzo non ci
metteva un po' d'impegno, non era assolutamente colpa sua. Solo, le dispiaceva
che una persona così acuta non riuscisse ad ottenere i risultati che in fondo
lei sapeva che si meritasse. Essendo arrivata in anticipo sul luogo
dell'incontro decise di utilizzare il mazzo di chiavi che le era stato dato
pochi mesi prima ed entrò nella casa. La esplorò per qualche attimo e poi, non
trovando nessuno, salì nel grande terrazzo che aveva sempre invidiato alla
nonna. La trovò seduta sulla sua solita sedia a dondolo mentre leggeva un libro
e si godeva gli ultimi istanti di raggi solari. La salutò, le diede un bacio
sulla guancia e le chiese come era andata la sua giornata. La signora le
sorrise guardandola: “Tutto bene, cara. Ora scendiamo, tra poco dovrebbe
arrivare tuo padre con il cibo che poco fa gli ho chiesto di prendere. Faccio
le melanzane, mi ricordo che ti piacciono tanto”.
Lettera dal fronte della I Guerra Mondiale
≈≈≈
Ecco il testo vincitore
del primo premio dell'edizione 2016-2017
del Concorso letterario del liceo Maffei
BIENNIO: "Questa è la vera storia di..."
24 maggio 2017
Buona lettura!
Il fardello dell'eternità
di Giulia Zusi, IV D
Il
pennello imprimeva la tela di colori delicati, sfumati di tanto in tanto per
creare le giuste gradazioni. Una mano anziana si muoveva agile sul foglio e con
lenti movimenti tracciava i contorni di una coltre di nuvole solitarie, morbide
e avvolgenti, che, occupando la parte sinistra della tela, si stagliavano, in
tutta la loro confusa perfezione, su un cielo cobalto, dello stesso colore del
mare poco più in basso. Le onde si rincorrevano giocose, spensierate, mentre
sulle loro creste erano stati disegnati, con cura quasi maniacale, la schiuma e
gli spruzzi prodotti dal quell'instancabile moto.
Intanto, la mano rugosa dalle dita
lunghe e sottili procedeva il lavoro silenziosamente, come coinvolta in un
rituale estremamente importante e i cui movimenti danzanti sembravano guidati
da una muta melodia. Di fronte alla tela si ergeva la figura di una donna
anziana: i capelli color cenere sciolti sulle spalle e il corpo leggiadro
proteso verso il quadro. Un attento osservatore avrebbe potuto notare il
costante tremolio che invadeva la mano e, con più attenzione, si sarebbe
soffermato sullo sguardo lucido e smarrito della signora. Era immersa in un
dolce ricordo...un pensiero luminoso che la faceva sorridere. La spiaggia, la
sabbia, il mare, il sole cocente...e un bambino: il figlio Telemaco.
Il piccolo giocava con le onde, nello
stesso mare che pochi mesi prima aveva portato al largo la nave di suo padre,
Odisseo. Il viso della donna fu attraversato da un'ombra di tristezza: il
ricordo del marito non faceva che causarle dolore.
D'improvviso il rumore di un clacson la
fece sobbalzare e la signora si risvegliò dal torpore della memoria. Dal
balcone del palazzo si potevano vedere le automobili che sfrecciavano sulla
strada trafficata, mentre su di lei si riversò, affilata come un coltello, la
cruda realtà.
"Penelope, lasciami andare, ti
prego...tornerò e potremo stare di nuovo insieme. Non conosco ciò che mi
aspetterà là fuori, ma basta avere speranza, basta che tu creda nell'uomo che
hai sposato. Ora guardami e non piangere: com'è vero che mi chiamo Odisseo io
farò ritorno e ad aspettarmi ci saranno la mia saggia moglie, mio figlio e la mia
bella Itaca. Solo una cosa ti chiedo, cara Penelope: non dimenticarmi. Fa' che il
sole, le nuvole, il mare e perfino il sorriso di Telemaco ti facciano ricordare
di me!" Poi il coraggioso Odisseo se ne andò silenziosamente, così come
era venuto, e Penelope, dal molo, rimase a guardarlo scomparire all'orizzonte,
piccolo...come un uomo.
Seguirono gli anni di paziente attesa,
le sofferenze inflitte dai Proci e le notti trascorse insonni a disfare la tela
che aveva cucito durante il giorno. Intanto il figlio Telemaco cresceva, stava
ormai diventando adulto e sul volto di Penelope cominciavano a manifestarsi i
segni del tempo e della preoccupazione, senza però scalfire la sua delicata
bellezza.
La speranza stava a poco a poco
svanendo, mentre il sole, il mare, le nuvole urlavano il nome di Odisseo, un
grido di disperazione che si levava da ogni raggio, onda o soffio di vento e
che la raggiungeva sempre, ovunque si trovasse. Passarono giorni, mesi, anni.
La gente, per le vie di Itaca, si fermava a chiacchierare e sempre nei discorsi
emergeva la paura di un possibile assedio dell'isola da parte dei Proci e la
preoccupazione per una regina un tempo tanto saggia, ma ora così tormentata e
fragile.
Poi venne...la notizia tanto temuta da
tutti: Odisseo non sarebbe mai più tornato. La sua nave era stata trovata
distrutta in prossimità dell'isola delle sirene e tutti i suoi uomini erano
annegati.
Penelope non pianse nè si disperò, ormai
aveva accettato il volere del Fato, di fronte al quale lei si trovava in una
posizione di impotenza. La regina uscì dal palazzo e si diresse verso il porto.
A stento riusciva a camminare. Gli abitanti di Itaca le vennero incontro e le
raccontarono in modo un po' più dettagliato ciò che era probabilmente successo
a Odisseo, ma nessuno di essi era a conoscenza del reale svolgimento dei fatti.
In realtà, Odisseo, una volta aver raggiunto
la rupe delle sirene, aveva visto quelle straordinarie creature muoversi nelle
acque del mare e sulla terraferma e intonare il loro canto soave.
Lo adulavano, ricoprendo il suo nome di
lusinghe. Dicevano che volevano parlargli, raccontargli ciò che lui non sapeva,
quel che nessun uomo conosceva...ed erano donne dall'aspetto affascinante e dalla
voce ancor più attraente.
Le loro parole carezzevoli seducevano
l'eroe, mentre le creature continuavano a cantare armoniosamente....Odisseo
stava quasi per arrendersi alla tentazione di raggiungerle sull'isola, perdendo
tutto il suo buon senso, quando però ad un tratto sentì una figura muoversi
attorno a sè: era la dea Atena venuta in suo soccorso per donargli un po' di
lucidità necessaria per riflettere. Così, l'uomo cominciò a calmarsi,
respirando profondamente e cercando il più possibile di ignorare le voci delle
Sirene.
Poteva andare da loro, lasciarsi
attrarre...gli avrebbero detto tutto ciò che desiderava sapere...ma perchè,
cosa voleva veramente conoscere ? Forse le sorti della sua patria, Itaca? Ma a
quale scopo? Perchè andare oltre l'ignoto e sfidare i limiti umani ? In fondo
era solo un uomo, non un dio.... Le Sirene erano consapevoli della sorte
toccata a Itaca e alla sua famiglia, ma a quale scopo venire a conoscenza di
tutto ciò? Odisseo si rese conto che non vi era in lui nessuna curiosità di
ascoltare quello che le sirene promettevano di dirgli, forse perchè sapeva che
la verità sarebbe stata difficile da affrontare. La verità gli avrebbe fatto
soltanto del male.
Le loro voci di miele però erano davvero
irresistibili, così, cercò di liberarsi, ma i nodi della corda erano troppo
resistenti e gli scorticavano la pelle. Però, mentre si divincolava come un
animale chiuso in gabbia, all'eroe parve di udire una voce a lui familiare, che
sovrastava i canti divini delle Sirene: era la voce di Penelope, la quale lo
implorava di tornare a casa, da lei e dal loro figlio Telemaco. Vide persino
riflesso sulla superficie dell'acqua il bel viso della moglie, mentre lei
ripeteva di raggiungerla al più presto possibile. Le sue parole ebbero un
effetto straordinario su Odisseo, infatti egli ignorò completamente il canto
delle Sirene...nulla aveva più importanza se non il desiderio di tornare a
Itaca. Intanto, l'imbarcazione procedeva lentamente verso il mare aperto e i
compagni remavano senza sosta, ignari di ciò che era accaduto all'eroe e del
cambiamento che aveva subito. Le Sirene, stupite e arrabbiate dal quel comportamento
diffidente nei loro confronti, proprio mentre la nave si stava allontanando
sempre di più dalla rupe, si avvicinarono ad Odisseo più di quanto avessero
prima d'allora osato, e, in poco tempo, distrussero con furia l'imbarcazione e
slegarono l'eroe. Così, come un violento uragano, i mostri fecero affondare la
nave, che trascinò con sé tutti i marinai, compreso Odisseo.
Nessuno seppe in seguito ciò che era
veramente accaduto presso l'isola delle Sirene. Penelope non poté mai venire a
conoscenza dell'ultimo pensiero formulato dal marito.
I ricordi tormentavano la donna, la
quale ora si trovava seduta sulla poltrona del salotto...i pennelli poggiati
sul tavolino e la tela incompiuta abbandonata sul cavalletto. Un brivido le
percorse la schiena quando nella sua mente riaffiorò l'immagine della dea Atena
che veniva verso di lei per riportarle un'altra triste notizia riguardante una
sentenza formulata dagli dei. Questi ultimi, con grande meraviglia di tutti gli
uomini, avevano decretato di donare ad una donna mortale, Penelope, la vita
eterna, in segno di riconoscenza per la fedeltà dimostrata nei confronti del
marito.
Così, contro il suo volere, era stata
costretta a divenire immortale e ogni secondo in più sulla Terra era un attimo
di dolore. Aveva visto il mondo cambiare intorno a lei e aveva assistito impotente
alla morte di tutte le persone a cui voleva bene. Ora si sentiva smarrita,
priva di qualcosa di essenziale e di incomprensibile...era come trovarsi
all'aria aperta, ma non avere più la forza di respirare. Il cuore continuava a
battere, ma la mente paradossalmente non voleva sentir ragione.
Penelope si diresse verso il balcone del
suo appartamento: le braccia abbandonate lungo i fianchi, in una posizione di
resa, la schiena curva a sopportare il fardello dell'eternità. Guardò il
paesaggio, così cambiato nel corso del tempo. I palazzi si ergevano alti e
imponenti, mentre sullo sfondo, appena accennato, si poteva intravedere un
frammento di mare. Una leggera brezza scompigliava le chiome degli alberi,
mentre le foglie più fragili si arrendevano alla corrente, provocando una
pioggia colorata d'autunno. Ricordava l'emozione che un tempo aveva provato
quando passeggiava per le vie di Itaca insieme ad Odisseo, la sensazione di
serenità e di libertà che sentiva ogni volta che il vento li sfiorava,
inebriandoli col suo profumo di mare. Ora non percepiva più nulla...la brezza
le accarezzava il viso, senza però toccarla veramente: lo sguardo aveva perso
la luminosità di un tempo, ogni gesto sembrava causarle fatica e l'espressione
del viso esprimeva una gravezza e una saggezza fuori dal normale e dall'umano.
Ormai Penelope, senza saperlo, era già morta da tempo.
Intanto per le vie della città, sotto di
lei, la vita proseguiva. Le persone camminavano veloci e dopo poco tempo
dall'inizio del loro percorso, scomparivano dietro l'angolo del palazzo di
fronte. Ognuno procedeva con la propria andatura: chi con passo spavaldo ma
distratto, chi invece più lentamente ma prestando attenzione a dove poggiava i
piedi. Vi erano poi anime che avanzavano in coppia e allora entrambe erano
costrette ad adattare il proprio passo a quello del vicino. Penelope sentiva parlare
spesso di omologazione ma, mentre osservava dal balcone le persone muoversi
lungo il marciapiede, percepiva qualcosa di unico in ognuno dei passanti.
L'apparenza poteva confondere, ma mai celare del tutto la vera essenza e
personalità di ogni essere umano.
Penelope fece un passo indietro, turbata
dalla vita che vedeva muoversi sotto i suoi piedi. Il viso stanco di una donna che,
come qualsiasi altro essere umano, soffriva proprio perché aveva amato e
continuava ad amare...un dolore causato dall'amore.
Dopo pochi attimi di smarrimento, gli
occhi della donna si abbassarono, rivolgendosi sulla strada. Penelope rimase
lì, sul suo balcone, con lo sguardo emozionato......perso nel tutto.
Ecco il testo vincitore
del primo premio dell'edizione 2016-2017
del Concorso letterario del liceo Maffei
TRIENNIO: "Racconto o poesia partendo da un’opera…"
24 maggio 2017
Buona lettura!
La Tessitrice
di Lucia Bezzetto, II D
Con la
lana dei giorni tesso in attesa
Aspettando
una voce che venga dal porto
A dirmi
“Lui viene”;
Ma ad
esser sincera
Io non
so se lui ancora viva
O sia
morto.
Così siedo
e tesso
E a
volte guardo il mare
Marmoreo
e ridente in pieghe di spuma
E capita
che il vento
Infili
una piuma
Fra l’ordito
e la trama della mia tela.
Ma
questa che tesso non è una vela
Destinata
a spiegarsi, un giorno, sul mare
(Fato di
donna
E’
tacere e filare
E
attendere un uomo che tarda la sera)
Poemi e
canzoni le sue eroiche gesta
Raccontano
– ma io non ho fiori di loto
Che mi
consolino di ciò che a me resta:
Coricarmi
a sera in un letto
Che è
vuoto.
Così io
sfiorendomi china al telaio
Ho
tessuto la mia impresa
Degna di
memoria:
La
storia della moglie del marinaio
Che si
fece d’amore e devozione
Un
sudario.
E quando
vagherò
Per i
campi d’asfodelo
Voi mi
ricorderete
Ravvolta
nel mio velo
“Paradigma
di virtù,
la sposa
d’Odisseo…”
Per
quella che tessei,
non
quella che ero.
≈≈≈
Ecco il testo vincitore
del primo premio dell'edizione 2015-2016
del Concorso letterario del liceo Maffei
"Alla maniera di..."
3 giugno 2016.
Buona lettura!
"Alla maniera di... Dino Buzzati"
IL CARILLON
Breve racconto
di Luca Bonazzi, I G
Troppo
ben in vista, il suo carillon splendeva ancora in vetrina. Nessuno l’aveva spostato.
Era proprio un bell’oggetto, un arnese degno d’antiche liturgie. Il legno
d’ulivo profumava di sacro. «Bonfatti – Antiquario» recitava l’insegna. Ma il
titolo di «antiquario», per quel figuro, era proprio un inutile complimento,
pensò. Suonava come un’offesa. Sorrise. Si stupì, a ricordarsi il gusto della
tensione che l’ironia ci disegna sulle labbra.
Riportò
le mani alle tasche dei calzoni sfilacciati. Era inverno, e il vento spirava implacabile.
Le foglie, spazzate qua e là, formavano cumuli e radure sul piano deserto di
vie e piazze. Sul vetro rimase impresso ancora per qualche istante lo stampo
caldo dei polpastrelli. No, inutile chiederselo, non aveva nemmeno un centesimo
bucato. Non poteva più nemmeno permettersi di intenerirsi. La carta moneta vive
d’una sua straordinaria gravezza.
Le
saracinesche ghigliottinavano i silenzi immensi dei selciati. Un tram passò
sferragliando alle sue spalle, in direzione delle chiatte e dei navigli. Antichità
sinistre venivano rievocate dalle lucerne. Rabbrividì. Era ormai tardi: voleva
illudersi che potesse esserci qualcuno ad aspettarlo. Chissà, un visitatore
venuto da lontano, uno che non sapeva.
E,
così, per l’ennesima volta affranto, riprese la strada di casa. Inchiodò lo
sguardo al calendario luminescente di una farmacia. Passò uno che, scambiandolo
per un amico, profferse un saluto, senza aspettare risposta. Non fece cenno
d’essersene accorto. Forse, nemmeno mentiva. Il giorno dopo, sarebbe scoccato
il primo anno. Trecentosessantacinque lunghissimi giorni passati a fissare il
vuoto, a calarsi come un cadavere in letti solitari.
Il
gioco era proprio una brutta bestia, pensò. Tutto gli aveva rubato: la moglie,
gli amici, il lavoro. Solo i momenti di noia aveva riguadagnato, ma storpiati,
inciviliti, parodiati. Entrò in una chiesa, a poggiare lo sguardo affaticato
sul dramma d’un’antica crocifissione. Restavano solo lui e la sua vecchietta,
la nonnina pietosa che, da un giorno
all’altro, gli aveva offerto una stanza. Dopo tanti giorni di riottosa
rinuncia, quasi si commuoveva. La stanchezza lo ardeva. Ricordava ancora: s’era
presentata come un’amica d’una sua zia anziana. Subito, non ci aveva fatto
troppo caso.
Ieri
come allora, un solo pensiero lo attanagliava. S’avvicinava il giorno che il
suo carillon non gli avrebbe più regalato il buongiorno. Era un saluto tutto
privato, senza parole, fatto d’intesa. Sarebbe successo tutto d’un tratto,
senza che se ne potesse accorgere. Sarebbe rimasto come un padre orfano del
figlio, come una giostra senza ritorno. Tutto si sarebbe appalesato come
un’amara sorpresa, come una constatazione impulsiva e costernata. D’altra
parte, impotente, disarmato, avrebbe voluto forse assistere alla scena del
rapimento? Di fronte al peso del denaro, lo sapeva bene, sarebbe valso a ben
poco reclamare il tanto tempo speso a desiderarlo. Si sentiva come un bambino
di fronte al regalo che, troppo costoso, non potrà mai acquistare. Eppure,
detestava la pietà, la vanità delle elemosine.
In
fondo, avrebbe potuto lavorare. Ma con che forza? Anche se sul momento non ci
aveva creduto, gli avevano detto che i topi del pane e i vermi degli animali
putrefatti non si generavano dal nulla. A modo loro, erano esseri viventi,
infatti. Chissà che, invece, le banconote… «Ma che dico! Follie!» si rispose,
ripigliando il filo dei discorsi, nell’eco di una città sempre più sola, sempre
più stretta, sempre più serrata su se stessa. In direzione della periferia, i
vicoli (lunghissimi, eh!) gareggiavano in miseria e squallore, sempre più
vuoti, sempre meno affrettati. Forse, un tempo, c’erano stati vasi, a decorare
i balconi.
Nei
suoi passi, si leggevano soltanto lui e il suo carillon, lui e la sua
ballerina, e il suo leggiadro passo di danza, solo accennato, fatto d’un vezzo
cortese e mai ostentato, riflesso nello specchietto color madreperla. Era
inutile cercare di riporne via il pensiero, o anche solo di posticiparlo. Non
c’era attimo in cui la presenza dell’oggetto amato smettesse di turbarlo,
facendo capolino a salutare qua e là tra le cose e i gesti della quotidianità,
tra i profili eleganti delle scatoline che riempivano le mensole della cucina della
casa in cui era ospite e le melodie miti suonate in strada dagli accattoni
vagabondi. Ma era di sera il tripudio della nostalgia, suggellato da quel senso
di vacuità che ogni cosa assume al buio quando medita se posarsi nel suo riposo
o attardarsi nella veglia, incapace d’estraniarsi dal cruccio.
Aguzzò
lo sguardo nelle tenebre: un gruppetto di bambini (ma non era troppo tardi?) giocava
poco più avanti. Avanzò. In fondo, aveva sempre amato i bambini. Come lo
videro, scapparono. Chissà che mestizia doveva aver dipinta in volto, pensò. Li
vide turbati. Quasi si vergognava. Forse, anche nella sua infanzia c’erano
state quelle fughe, quelle congiure fanciullesche, quei mondi e quei giochi
appartati. Si stagliarono in lontananza urla complici. «Scappate, scappate,
un…!» Uno (inavvertitamente?) lo spintonò. Quasi cadde. Chissà. Non ebbe tempo
per voltarsi ad inseguirli tra i marciapiedi. Aveva altro per la mente.
Miriadi
di case accatastate s’accavallavano ai lati del suo cammino, facendogli largo,
schivandolo, ritraendosi al suo arrivo. Puzzava della stanchezza della
giornata. Un ringhio allucinante gli premeva sulla scatola cranica. Ogni
singolo osso era infranto, ogni articolazione spezzata, interrotta. Tra un
passo e l’altro, s’interponevano attimi dispnoici e allucinati, che
scompaginavano d’ansia la consequenzialità dei gesti e dei pensieri. Si passò
una mano sulla fronte, aspersa di sudore. Guardò l’ora. Qualcosa fischiò tra le
tenebre. Imboccò una scorciatoia: gli dispiaceva fare tardi. Non avrebbe avuto
la forza di riscaldare la minestra della sera, si diceva. I neon impiegano
troppo tempo a riscaldarsi, pensò.
Il
pentimento s’insinuava nelle tenebre e nel puzzo delle stradine cenciose,
inseguendolo ovunque. Ogni fuga si risolveva in una nuova sconsolatezza.
Parallelamente, le strettoie appartate e muscose gli ricordavano gli amori
dell’adolescenza, le gazzarre in compagnia, i primi ritrovi. Era un relitto
d’uomo, ma, in gioventù, come mille altri, aveva amato e frequentato i teatri
di nostalgica avanguardia, le più improbabili mostre d’arte, i salotti più
facoltosi. Era stato quello che i più etichettano come uno snob, un amante
della vita mondana e delle belle donne, un uomo senza passioni private, un
esibizionista esaltato e megalomane. Nulla di più vero. Di quell’epoca, gli
rimaneva un ricordo confuso e sparso, privato della sua consistenza. Il peccato
antico stralciava come una lama acuminata l’oblio delle stagioni intermedie. I
pochi istanti di magnificenza si rimestavano nell’ubriachezza.
Che
strano, si diceva, avrebbe dovuto essere a casa da un pezzo. Le abitazioni (e
dire che qualcuno, là dentro, si doveva invece sentire al sicuro!) gli si
paravano di fronte sconosciute, disabitate, deserte. No, doveva essersi
ingannato (ma proprio quel giorno doveva succedere, maledizione?). Conveniva
tornare indietro, percorrere la strada rituale (ma quanta stanchezza!). Non rinfrancato,
avanzò a tentoni per qualche passo. Perché i lampioni non facevano luce?
Incappò nella forcella d’un bivio. Era venuto da destra o da sinistra? E, se da
destra (sì, riconobbe un bagliore appena scorciato sul fondo della via), aveva
visto, prima, quel vetro infranto, quel cartello sbilenco, quel luccichio circospetto
di vetri?
Non
aveva il coraggio di chiedere informazioni. Non un uscio socchiuso, non
un’insegna esposta. Strano, avrebbe detto di trovarsi in un quartiere di
negozi. Ogni cosa raggelava come era raggelata sulla costiera del Golgota. Ma
il freddo gli impediva di trattenersi fuori di casa più a lungo. Una figura
allungata si stagliava poco distante. «Scusi, Lei, potrebbe…?» avrebbe voluto
dire. Rinunciò. Quello (da quando in qua aveva iniziato a parlare a voce alta?)
si voltò lo stesso. No, non poteva guardare proprio lui. Eppure non c’era
nessun altro. «Sì, prego?» «Nulla, nulla, mi scusi.» E se ne andò imbarazzato.
Avanzò
ancora di qualche passo. Forse, se, alle porte della chiesa, si fosse fatto il
segno di croce… Forse, se fosse stato capace ancora una volta di rinunciare
alla sua paralitica superbia... Error in uno, error in omnibus. Qualcosa
ruzzolò a terra. Alle sue spalle, gli sembrò che qualcosa s’insinuasse verso di
lui. Deglutì a fatica. Si voltò. Il viandante, lungo la via assonnata, non
c’era mai stato. Gridò. Nemmeno l’eco rispose. Pura
suggestione, si disse. I profumi mutavano. Il tempo scorreva senza più nemmeno
reclamare un senso.
No,
non poteva essere vero. Per qualche minuto, esitò tra la corsa e il tremore,
senza profferire un passo. Aveva mai avuto una casa? Si sentiva circondato da
presenze paranoiche: in ogni anfratto di muro poteva essere incantucciato un
nemico. Fu un colpo. S’accasciò a terra. Cadde come una cosa decrepita.
Qualcuno (chi mai?) rideva, rideva, rideva ancora. Il sonno lo trascinava in
direzioni contrapposte, come uno straccio scipito.
«L’hai
fatto ancora.» «No, basta, prometto, sono cambiato.» No, non c’era più tempo.
Non c’era mai stato tempo. Tra un’orda di rimpianti, avanzava una nonnina:
teneva in mano un pacco imballato. «Tieni.» E glielo porgeva. Inutile
rifiutare. Non ne aveva la forza. Gli si soffocò in gola il diniego. Fece un
cenno d’assenso, e quella lo scartò. Qualcuno forse fuggiva, capace ancora di
gridare il suo dolore. Un allarme urlò sulla notte. Più in basso, per qualche
istante, a brevi, sequenziali intervalli, la convulsione dei vicoli s’annegò in
un suono inusitato, simile a uno scrocchio di vertebre ossute. Ne uscì una
melodia soave, alchimia di poche note metalliche. Evocava agonie antichissime,
colpe implacabili. La pietà è nel gergo dei morti. Solo allora capì. La
riconobbe. Era la vecchietta dell’appartamento.
FINE
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