"Sono il mio peggior nemico
e devo volermi bene lo stesso!". Come può essere ritrovarsi a vestire i
panni di chi fino al giorno precedente si ha odiato, a cui si ha imputato la
colpa di ogni sciagura? Di questo tratta il film Il figlio dell'altra (2012) di Lorraine Lévy.
Due famiglie, una israeliana e
l’altra palestinese, scoprono di essersi erroneamente scambiate i neonati al
momento della nascita nell’ospedale di Haifa. I due ragazzi sono cresciuti con
la loro famiglia (sbagliata), indottrinati dagli insegnamenti e dalla cultura
di quelli che possono essere considerati i loro peggiori nemici, tanto il
conflitto israelo-palestinese si è fatto acuto e teso nel corso dei decenni.
Alla scoperta dell’errore, le due famiglie cercano di incontrarsi e di conoscersi,
tentativo che fallisce soprattutto per l’incapacità dei due padri di superare
le questioni politiche che dividono radicalmente le due società. Saranno invece
i due ragazzi a conoscersi e frequentarsi fino a diventare amici, dopo che
ognuno dei due ha avuto una profonda crisi di identità. Joseph, il ragazzo
cresciuto a Tel-Aviv, giungerà ad affermare: “Non ho più il diritto di essere
ebreo e non mi sento arabo”.
Ma è proprio questo che probabilmente riesce a sanare la contesa ideologico-culturale: crollata la sovrastruttura degli insegnamenti, dettati più dal senso comune e dalla propaganda che dall’effettiva analisi critica della situazione, entrambi i ragazzi sentono di essere, al di là delle etichette che la società e lo Stato attribuisce loro, membri di una stessa comunità, che è l’umanità. In questo processo è fondamentale l’apporto delle due rispettive madri, che non riescono a rinunciare a considerare legittimi e degni di uguale amore entrambi i figli, dimostrando così che le ragioni del cuore e, in un certo senso, del nostro istinto, vincono – e devono vincere – sui preconcetti e sui rancori.
Ma è proprio questo che probabilmente riesce a sanare la contesa ideologico-culturale: crollata la sovrastruttura degli insegnamenti, dettati più dal senso comune e dalla propaganda che dall’effettiva analisi critica della situazione, entrambi i ragazzi sentono di essere, al di là delle etichette che la società e lo Stato attribuisce loro, membri di una stessa comunità, che è l’umanità. In questo processo è fondamentale l’apporto delle due rispettive madri, che non riescono a rinunciare a considerare legittimi e degni di uguale amore entrambi i figli, dimostrando così che le ragioni del cuore e, in un certo senso, del nostro istinto, vincono – e devono vincere – sui preconcetti e sui rancori.
In un quadro di forte tensione –
le scene dei passaggi ai checkpoint e le riprese del muro sono tante nel corso
del film e sembra quasi che la regista, ogni volta che deve cambiare
l’ambientazione da Israele ai Territori Occupati, voglia di proposito far
vivere la tensione e la degradazione di questi controlli – l’unica soluzione è,
secondo la Lévy, comprendere l’altro e viverci come tra fratelli (come in un
certo senso Joseph e Yacine sono), passando per ciò che è condiviso e comune,
piuttosto che per ciò che è motivo di contesa. E quindi fumarsi una canna dopo
una festa sulla spiaggia con quello che si considerava la persona più lontana
da sé, non sembra più così strano.
La situazione in Israele e nei
Territori Occupati, effettivamente, è di alta tensione. La culla delle tre
religioni monoteiste e delle loro culture, quale è la Terrasanta, è contesa da (almeno)
due popoli, ognuno dei quali pretende di avere la Verità dal punto di vista
religioso-culturale e il diritto sulla terra dal punto di vista politico.
Questa commistione di cause, motivazioni, culture – tanto che risulta riduttivo
affermare che ci sono solo israeliani e palestinesi, vorrebbe dire non
considerare anche i cristiani arabi palestinesi, gli arabi israeliani, i cristiani
arabi israeliani, gli israeliani ortodossi, gli israeliani atei, gli arabi non
palestinesi, etc. – ed avvenimenti storici rende la situazione estremamente
complicata e difficilmente riducibile a uno scontro tra due parti dettato solo
dalla sovrastruttura educativa e culturale, senza la quale ogni conflitto
sarebbe pacato. Chi ha avuto la possibilità di viaggiare in quelle terre – come
è successo a settembre ad alcuni studenti e professori del Maffei tra cui anche
io – non può non rendersi conto immediatamente della ricchezza e complessità di
tutte le questioni che ruotano attorno alla Terrasanta. Dopo aver visto il
film, noi ragazzi che abbiamo affrontato questo viaggio eravamo d’accordo sul
fatto che, purtroppo, la situazione e le cause del conflitto non possono essere
ricercate solo nella contrapposta propaganda, ma hanno anche origini di
carattere oggettivo, che non dovrebbero sfociare nella violenza o nell’odio
come spesso accade, ma che certo non possono essere completamente ignorate. Il
film è senza dubbio più idealizzato e idealizzante che descrittivo, ma non per
questo il suo messaggio – che scava nel profondo di molti conflitti sociali,
politici e bellici presenti nel mondo – va sottostimato. Provare sempre ad
allungare una mano verso l’altro, non vedendoci un nemico ma un potenziale sé
stessi, è la chiave risolutiva di ogni dissidio, ci insegnano Joseph e Yacine.
Giulio Pignatti, III G
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